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giovedì 30 maggio 2013

Cesacastina: di pietra, acqua e legno

Un grazie di cuore a Concetta Zilli per la sua preziosa collaborazione nel farci conoscere un paese unico!

Tre parole caratterizzano il paese di Cesacastina, a 1150 metri, nei monti della Laga teramani: pietra acqua e legno.

La pietra e’ stata per secoli la regina.
Ha creato case, strade, muri, è stata utilizzata per altari di chiese, fontane, tabernacoli.

Gli elementi lapidei sono l’anima di questi luoghi.

Il legno dei boschi ha fatto innalzare tetti con travi a vista, ha dato modo di realizzare pavimenti o scuri delle finestre.
È stato sostegno nei lunghi e freddi inverni.

L’acqua è la grande ricchezza di questi luoghi, abbondante e di eccezionale qualità; ha dato forma a ruscelli e fiumiciattoli, cascate e laghetti.

Cesacastina ha una scenografia di grande impatto.
Il paese ha la forma di una croce e, ad ogni estremità corrisponde una borgata: colle, villa mastresco e combrello.
Ognuna di queste zone è a sua volta un piccolo paese con le abitazioni in pietra locale di arenaria, squadrata, solidissima, resistente ai terremoti.

La parte più antica e’ il combrello, contrada “scomoda”, posta in pendenza e per questo la prima ad essere abbandonata dai suoi abitanti.
Secoli fa qui era presente un monastero.
Ecco il perché delle epigrafi in latino, dei moniti, le lodi e i segni d’ispirazione gesuita come le lettere IHS in cui l’H e’ sormontata dalla croce.

Ancora oggi, su un architrave, in piazzetta, si legge un monito inquietante del settecento: DESCENDANDT IN INFERNUM VIVENTES, NE DESCENDANT MORIENTES, se si pensasse più all’inferno da vivi, non ci si andrebbe da morti.
Nel chiuso di una di queste case si trova uno splendido camino fatto in pietra pregiata nel 1780.

Il manufatto è imponente, inciso con fioroni ritorti ed uccelli alati, angeli, grifi con code di leone.

Nella contrada Mastresco c’è una chiesina che può contenere circa venti persone, dedicata all’Immacolata Concezione, dove la messa viene celebrata solo l’8 dicembre.
 Negli anni trenta, nella borgata si contavano più di cento persone tutte con lo stesso cognome: Romani, Marrocco, Tomò.
I capi di bestiame erano oltre cinquemila di cui la metà di proprietà di Samuele Marrocco.

Un discendente della famiglia continua la tradizione pastorale deliziando con la sua ricotta ed il formaggio.
Era qui che lavoravano i più bravi “archire”, intarsiatori di legno, abili nel realizzare le famose arche e madie dove si preparava il pane e si conservavano le scorte di cibo in assenza del frigo.

Le più belle erano incise con una specie di compasso, con motivi di fiori stilizzati.
Di pregio vi era anche il mulino gestito da due donne, cosa insolita per i luoghi e i tempi.

La Villa e’ la borgata centrale.

Vi si erge la bellissima chiesa dedicata ai SS Pietro e Paolo, con la facciata seicentesca e il campanile a vela a tre campane.
Questi bronzi, nei giorni di festa grande, vengono suonati ancora a mano, tirando le funi con una tecnica che pochi conoscono.

Se non vengono agitate le corde con l’esatto sincronismo, infatti, non si ottiene la melodia esatta dei rintocchi.

Due devono essere i suonatori, uno che agita una campana, mentre l’altro che deve trovare il giusto ritmo nelle braccia per tirare le funi delle altre due.
Un terzo uomo e’sempre pronto a dare il cambio al primo cenno di stanchezza.

Sulla sommità della chiesa vi erano due leoni del XIV secolo. Dopo il recente terremoto, per motivi di sicurezza, le fiere di pietra sono state spostate in attesa di restauro e momentaneamente si trovano delle copie realizzate da scalpellini locali.

L’interno si presenta con una pianta a croce e altari barocchi di gran pregio ricoperti con lamine in oro e colonne tortili.
 Quello maggiore, a tre nicchie, contiene le statue lignee dei santi Pietro e Paolo e un Gesù del Sacro Cuore.
In alto troneggia un busto del Padre Eterno e la colomba dello Spirito Santo.

Nella cappella di destra, si ammira un dipinto locale delle anime purganti, mentre in quella di sinistra, che conserva il pavimento in lastroni di arenaria antichissimi, c’è un quadro con la Madonna del Rosario, opera di bottega napoletana, fine XVI secolo.

È un piccolo tesoro conservato nella solitudine dei nostri monti.
Oggi ad accogliere i fedeli ci sono delle panche in legno, ma un tempo ogni famiglia aveva le proprie sedie fatte costruire per l’occasione e tutti occupavano un posto definito.

Quando i giovani convolavano a nozze, il suocero commissionava una nuova sedia, intarsiata, per la sposa, che si accomodava negli spazi della nuova famiglia.

Tradizionalmente la cappella di sinistra ospitava solo uomini mentre le donne si riversavano tutte nella navata di centro.
L'ultimo restauro che ha dotato la chiesa di un bel pavimento in cotto, ha cancellato un segno che ha terrorizzato generazioni di bimbi: la botola coperta da una enorme pietra quadrata.
C’era il carnaio dove prima della legge napoleonica, venivano calati i morti con le funi.

In questo luogo sacro si conserva il pregiato calice in argento dorato realizzato dall’orafo Bartolomeo di Sor Paolo di Teramo nel 1426, molto simile a un altro presente nel famoso British Museum di Londra.
I sei smalti sul piede e sul nodo raffigurano il Cristo tra i santi.
Davanti allo spiazzo della chiesa si ergeva l’olmo secolare, alto trenta metri, piantato nel seicento e divenuto famoso in tutt’Italia, per essere il terzo più grande della penisola.

Per abbracciarlo erano necessarie le braccia di undici uomini.
L’olmo è stato il simbolo della comunità.

Quando in paese si costruì una strada e arrivò l’energia elettrica, l’albero per il taglio delle radici e per le scariche elettriche dei fulmini attirati dalla vicina centralina, perì, lasciando il paese sgomento.

L’ultima borgata, il Colle, è in alto.
Nelle sue vicinanze ci sono le sorgenti migliori della Laga: l’acqua “d’ lu pirdir e d’ li finticell “ oltre a quella “d’ la lagnett” che probabilmente verrà imbottigliata (per caratteristiche organolettiche, è tra le prime cinque acque in Italia).

Non lontano c’è la “cunicell d’ lu coll”, il tabernacolo sormontato da uno splendido viso di angelo alato in pietra e una croce in ferro battuto.
All’interno è conservato un crocifisso ligneo egregiamente restaurato da pochi mesi.




Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".

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