Cerca nel blog o nel web o nei siti della PacotVideo

mercoledì 25 settembre 2013

70° anniversario della battaglia di Bosco Martese


Il 25 settembre 2013 si è svolta in località Ceppo di Rocca Santa Maria (Teramo) la manifestazione per ricordare il 70° Anniversario della Battaglia di Bosco Martese e la prima Battaglia in campo aperto della Resistenza Italiana.

La manifestazione è stata integralmente videoripresa da Vincenzo Cicconi della PacotVideo.

Dopo la deposizione di una corona d'alloro ai Caduti Partigiani ai piedi del Monumento al Partigiano ci sono stati diversi interventi.



La manifestazione è stata presentata da Mirko DE BERARDINIS, Segretario Provinciale ANPI
Hanno portato i loro saluti:
Stefania GUERRIERI, Sindaco di Rocca S. Maria (TE)
Vincenzo ESPOSITO, Sindaco di Valle Castellana (TE)
Mauro MARTINO, Presidente Consiglio Provinciale Teramo
Sono intervenuti:
Roberto RICCI, Docente di Storia e Filosofia
Alberto DI DARIO, Segretario Provinciale CGIL Teramo
Antonio FRANCHI, Presidente Provinciale ANPI
Giovanni LEGNINI, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, in Rappresentanza del Governo


INTERVENTO DEL PROF. ROBERTO RICCI (dal 24° al 37°minuto

Ricorrono settanta anni dalla battaglia di Bosco Martese e quest’anno l’anniversario riveste un particolare significato: inizia un nostro settuagenario percorso della memoria che si concluderà per noi teramani il 14 giugno 2014 con la Liberazione di Teramo e poi come italiani il 25 aprile 2015 e il 2 giugno 2016.

I settanta anni di Bosco Martese hanno segnato diverse generazioni di teramani e vanno ormai considerati un patrimonio comune della città e della provincia di Teramo, una tradizione di libertà e di democrazia.

Sicuramente un momento essenziale della nostra stessa identità di teramani e italiani nel secondo Novecento


Anni che si allontanano nel tempo, ma sempre attuali per la lezione che ancora ci indica tra la memoria degli eventi con le fonti più diverse, la storia della ricezione e la narrazione di quegli eventi.

In effetti la battaglia di Bosco Martese contribuisce a caratterizzare la Resistenza italiana come un fenomeno nuovo, considerato ormai come un Secondo Risorgimento per gli interventi decisivi espressi a più riprese dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, specialmente in occasione del 150° dell’Unità d’Italia.

Dopo l’8 settembre 1943 a Bosco Martese si volle, con una decisione precisa, un forte concentramento di militari e civili che si oppose alla occupazione tedesca di Teramo.
I tedeschi, arrivati in città, decisero di reprimere questa presenza e con un battaglione motorizzato, il 25 settembre, cercarono di battere i partigiani; respinti, tornarono il giorno dopo, il 26, con nuovi rinforzi ma furono nuovamente sconfitti.

Fu il primo successo militare e politico della Resistenza italiana.

Qui si sacrificarono giovani vite umane contro l’oppressione nazi - fascista.
Qui furono uccisi il 25 settembre i teramani Luigi De Jacobis, Guido Belloni, Mario Lanciaprima, Gabriele Melozzi, Guido Palucci.
A Sella Ciarelli il 26 settembre furono fucilati i tre militari dell’arma dei Carabinieri e il sergente maggiore degli alpini catturati alla Stazione dei Carabinieri di Pascellata, Leonida Barducci di Ancona, Settimio Annecchini di Fossacesia (Chieti), Angelo Cianciosi di Furci (Chieti), Donato Renzi di Pascellata.

Furono questi morti a far entrare Teramo nella Storia della Resistenza e in quella della Italia Nuova con le parole di Libero Pierantozzi da Radio Bari nel novembre 1943, che ancora nel 1973 nel ricordo di quegli eventi stigmatizzava i nomi di alcuni protagonisti: Ammazalorso, i fratelli Rodomonte, il capitano Bianco, gli ex deportati jugolaslavi, De Nigris, Ciccillo Di Marco e altri ancora.

Per rappresaglia a Bosco Martese troverà poi la morte Mario Capuani il 27 settembre 1943.
A Montorio al Vomano, in uno scontro a fuoco con i repubblichini, il 13 dicembre 1943 fu ucciso Ercole Vincenzo Orsini.
Essi furono tra i principali organizzatori di quel concentramento e rappresentano l’esempio più fulgido del patriottismo teramano.
Un valore finalmente riconosciuto con la medaglia d’oro della Resistenza concessa dal Presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi nel 2005.

Una lotta con origini lontane.
L’esilio e la morte di Romolo Di Giovanntonio (1941), Francesco Martella (1943), Renato Villermin (1944).
Il travaglio umano e civile dovuto alla guerra dei militari Renato Molinari e Alberto Pepe, morti a seguito della netta scelta di campo (1945).

La battaglia di Bosco Maltese fu soprattutto un “fenomeno forse unico in tutto il corso della Resistenza italiana, quello della emigrazione compatta della parte più attiva di un’intera popolazione in montagna”.
Ce lo ricordava Roberto Battaglianel suo libro “Storia della Resistenza italiana”.

Un chiaro e indubitabile riconoscimento militare e civile di questa esperienza di partecipazione attiva, specialmente dei giovani come Riccardo Cerulli, dei giovanissimi ragazzi della ragioneria, del liceo Classico Melchiorre Delfico organizzati da Vincenzo Massignani, dei militari, dei teramani, degli stranieri (slavi, inglesi, americani), della popolazione, dei parroci di montagna.

Ma la battaglia di Bosco Martese va inserita in un contesto più ampio.
L’Abruzzo è intensamente interessato alle vicende del 1943 - 1945:
la presenza del Re dopo la fuga da Roma verso Brindisi, di Mussolini a Campo Imperatore, la rivolta di Lanciano, i martiri aquilani, le stragi di Pietransieri e di Filetto, l’epopea della Brigata Majella, la battaglia di Ortona, i bombardamenti lungo la linea adriatica, Pescara, Giulianova, Tortoreto stazione, Teramo, l’Aquila, Chieti, Lanciano, Sulmona.

Bosco Martese entra così a pieno titolo nella storia della Resistenza italiana dopo Porta San Paolo, Cefalonia, le quattro giornate di Napoli.

Dopo settanta anni è giusto, è utile porci la domanda: ha ancora un senso una memoria che si perde con il tempo, con la scomparsa dei testimoni, il passare delle generazioni ?

E’ sufficiente riaffermare un dovere verso la memoria per renderla vitale e duratura?
Si tratta di lavorare sulla memoria, affinarne i caratteri, farne un lievito di buon pane nel tempo.
Soprattutto la memoria ha una valenza educativa per tutti, un valore straordinario specialmente per i giovani.
La memoria aiuta a scomporre e ricomporre l’identità, l’appartenenza, la cittadinanza.

In particolare ormai occorre un uso pubblico della storia e una sua cittadinanza a pieno titolo, una cittadinanza attiva.

Si tratta di sfidare il passato, con le doverose cautele, mediazioni, professionalità, farne uno strumento intelligente del nostro presente senza paure e senza infingimenti anche sul carattere di guerra civile che fu, senz’altro, la Resistenza.

Il segreto di Bosco Martese ?
Senza dubbio - “un atto di audacia“ perché avviò il superamento della lacerazione materiale e morale dell’8 settembre una ricomposizione delle coscienze in un nuovo senso dell’identità, dell’appartenenza, della cittadinanza.

Così l’idea di libertà e di avversione al nazifascismo ancora istintiva, ribellistica, giovanile dei tanti teramani, lo stesso ritrovato orgoglio cittadino e municipale, provinciale, diventò linfa vitale congiungendosi con un nuovo senso della Patria dei militari italiani dopo l’8 settembre dovuto alla autocoscienza della guerra perduta, un senso non soltanto italiano ma europeo e mondiale per la presenza di ex prigionieri.

Occorrerebbe ricostruire vita per vita dei combattenti di quella epica battaglia, in particolare la generazione del 1920 fino al 1926/7, per meglio intendere il significato dei 1600 teramani che vi parteciparono.
Ne scaturirebbe il travaglio esistenziale della guerra con la avversione al nazi-fascismo, la tensione morale, la socialità di quella esperienza, la maturazione, la connessione comunitaria ideale e civile prezioso lascito per la successiva Liberazione di Teramo e la costruzione dell’Italia del 2 giugno 1946, l’Italia della Repubblica e della Costituzione.

Questi caratteri permetterebbero anche, senza perdere mai di vista di combatteva per la libertà e chi per la tirannide, una analisi distaccata e più attenta sulle vite spezzate e poi ricomposte dopo l’8 settembre, specialmente utilizzando la cosiddetta “zona grigia”, come ci ha insegnato Primo Levi ne I sommersi e i salvati e quanti - e furono la maggioranza – non presero parte attiva agli avvenimenti ma ne furono comunque condizionati, influenzati e ne assimilarono la lezione.

Questo è il modo migliore per rispondere ai detrattori della Resistenza e del cosiddetto revisionismo storico : la Resistenza fu una lotta per una idea di libertà e di giustizia che poi si è arricchita, maturata, radicata se da essa è nata l’Italia democratica, plurale e antifascista.
E portiamo ancora e vivono con noi il lascito dei combattenti di allora, le sofferenze, le emozioni, la speranza di un mondo migliore nella pace, più libero e più giusto per tutti.

Una storia condivisa non può che avere questo carattere.
Non una storia dei vincitori sui vinti, ma una riscrittura umana dei sentimenti, delle emozioni, dell’etica della Resistenza rispetto a quella di Salò.

In generale della sofferenza degli italiani dopo l’8 settembre che diventa nazione con la stagione resistenziale e Stato Nuovo con la Repubblica.

Perciò è tempo di una mappa dei tempi e dei luoghi della memoria resistenziale nel nostro Abruzzo.
Un itinerario che parta da Bosco Martese con la data del 25 settembre come festa civile dei teramani e degli abruzzesi e faccia trovare una rinnovata unità e identità della provincia di Teramo e della Regione Abruzzo sul filo delle memoria partendo da quest’anno fino al 2016.

E come - soprattutto - tutto questo è stato il risultato di un intreccio fecondo di esperienze e culture diverse, di vissuto, sentimenti, partecipazione, presenza degli abruzzesi nell’esercito, nelle nostre città e nelle nostre campagne, nelle nostre montagne, con la tessitura di una nuova dimensione della memoria collettiva.

Ecco perché possiamo parlare della Resistenza come un fatto di popolo, ecco perché i valori di Patria e Nazione dopo l’8 settembre non rivestono più i caratteri della retorica ma una acquisizione convinta, una sedimentazione e una trasmissione nel tempo con un rapporto sempre vivo tra memoria personale, familiare e comunitaria.

Allora come possiamo far vivere ancora il clima dell’8 settembre, l’Italia alla deriva, la occupazione tedesca, la guerra in casa, i passaggi di fronte, il freddo, la paura, ma anche la voglia di riscatto, l’entusiasmo, l’orgoglio dei teramani e degli italiani?

La Resistenza ci ha lasciato questa ricchezza: una memoria aperta che permette ancora la narrazione perché appartiene ad ognuno di noi e alle nostre famiglie, alla nostra identità di teramani e di italiani.

La battaglia di Bosco Martese ci insegna che in alcuni momenti della nostra vita bisogna scegliere da che parte stare ascoltando la voce della coscienza e della ragione.
Ci insegna ancora una memoria aperta della nostra identità, appartenenza, cittadinanza che nessuno può spegnere e che la Resistenza ha saputo interpretare e trasmettere nei mesi bui dell’occupazione tedesca e poi, ancora, attraverso il ritorno alla democrazia con i Partiti e le organizzazioni democratiche nei mesi esaltanti della Repubblica, della Costituente,della Costituzione, della Ricostruzione.

Sono stati questi gli anni dell’Italia che hanno voluto quanti hanno combattuto qui e quanti, soprattutto, si sono sacrificati con la vita.

E’ questa l’Italia che amiamo e che vogliamo sia ancora.

giovedì 19 settembre 2013

L'eremo dell'anacoreta Onofrio

Serramonacesca è un borgo in pietra, alle pendici settentrionali della Maiella, sopra il frastagliato corso del fiume Alento, in un lembo di territorio pescarese tra i più ricchi di antiche memorie, leggende, e monumenti di rara bellezza artistica.
È un paese conosciuto soprattutto per la splendida abbazia di San Liberatore

Eppure la storia di questa terra va cercata, scoperta e decifrata, esplorando con pazienza le pieghe della montagna e della memoria.
Tra le rocce e gli arbusti scorre una linfa spirituale che fa di questa valle un luogo sacro da vivere intensamente.

A meno di mezz’ora di cammino a piedi in un boschetto, su di un sentiero a volte scolpito nella roccia e a picco su di uno strapiombo, si trova l’eremo dell’anacoreta Sant’Onofrio vissuto intorno al XII secolo.
Pochi ne conoscono l’esistenza.

Molti si confondono con l’antro più famoso ubicato sulle pareti del Morrone, testimone dell’esistenza spirituale di frate Pietro Angelerio, papa Celestino V che da quel luogo partì, per il soglio pontificio, arrivando a Collemaggio a dorso di un umile asinello tra lo sconcerto dei cardinali e il giubilo del popolo.

In venti minuti di gradevole camminata, partendo dalla contrada Brecciarola, raggiungo il misterioso antro a 700 metri di altitudine, mirabilmente costruito nella pietra, addossato a un costone roccioso.
La presenza della grotta non lontana dalla Badia del Santo Liberatore fece dell’eremo un luogo di preghiera per diversi religiosi dall’XI al XIV secolo, tempo di fiorenti commerci nella zona.

Mi accompagna un amico di Pescara, Luigi che qui ha un suo piccolo rifugio estivo.

Luogo di antiche leggende, anche la figura di Onofrio, eremita coperto solo da una lunghissima barba grigia e capelli stretti al corpo per mezzo di una cintola, è avvolta da un fitto mistero.

Addirittura la tradizione vuole che fosse figlio di un sanguinario re di Persia.

Il giovane, colpito dalla ferocia del padre, abbandonò gli agi di corte, ritirandosi in questa che divenne una chiesetta incastonata nella montagna.

Nel romitorio aleggia ancora il senso del mistico.
La statua originaria del secolo XV, raffigurante l’uomo di Dio, non c’è più.
Dicono sia al sicuro.
C’è solo una povera foto, ha la faccia rivolta al cielo e la corona del rosario in mano.

Lo sguardo duro e inflessibile ricorda un altro manufatto dedicato al santo, che anni fa si trovava nella cripta della cattedrale di Ortona.
Il culto per questo persiano è diffuso in Abruzzo.

La sua figura si staglia, possente, anche in un affresco medievale di Bominaco, nell’oratorio del San Pellegrino.

Il giaciglio oggi sporco e pieno di paglia umida dove il santo riposava, chiamato la culla di Sant’Onofrio, è ancora utilizzato dai pellegrini che vi si adagiano nella convinzione pazzesca che un potere taumaturgo possa guarire dai dolori dell’addome, delle reni e degli arti.

Luigi racconta che gli abitanti di Serramonacesca più di una volta hanno provato a portare la statua raffigurante il patrono nella parrocchiale in centro paese.

Di notte il santo sarebbe sceso giù dalla montagna per riportare all’eremo l’effige lignea che lo raffigura, ricollocandola in quella lurida grotta dove aveva trascorso lunghi anni di ascetismo.
Chissà come sarà adirata la statua dove ora si trova celata.
Perché per me l’originale è stato rubato!

Agli occhi del visitatore, appare forte il contrasto tra la zona originaria dove l’asceta viveva e la parte nuova ricostruita dai fedeli negli anni ’50, così come appare d’altri tempi l’ostinazione nel credere alle innumerevoli leggende di cui questi boschi sono permeati.

Sopra l’eremo, dopo una zona picnic, è d’obbligo la visita alla statua bianca della Madonna, per molti, dispensatrice di guarigioni.
C’è una croce di ferro con sopra una data resa indecifrabile dal tempo.

Devono aver imperversato fulmini su di essa un po’ come accade alla Chiesa di oggi.

C’è anche una fonte definita miracolosa, dove sgorgherebbe acqua curativa.
Mi spiace dovervi deludere, non credeteci.
Mi sono bagnato abbondantemente nelle parti più atrofizzate del mio povero corpo senza averne giovamento alcuno.
Luigi si muove sapientemente tra i cespugli sotto un cielo color genziana.

Incurante delle panchine di legno, s’installa su di una pietra levigata dalla pioggia e allestisce il suo personale banchetto tra frittata d’asparagi selvatici e sorsi di buon trebbiano.
Poi, di colpo, prorompe nel suo immancabile: “Questa è vita”!
Incredibile come riesca a evocare i sapori d’Abruzzo con il buon pane dell’Aquila.

Si raggiunge l'eremo attraverso la A 25 Pescara Sulmona, uscita Scafa, poi S.S. 539.

=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================

mercoledì 18 settembre 2013

Il nobile tempio del Santo Liberatore a Serramonacesca

“Sulla mia tomba non mettete marmo freddo con sopra le solite bugie che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra che scriva, a primavera, un’epigrafe d’erba”. (Nella pietra cimiteriale di Adriana Zarri, scrittrice)

C’era una volta un’abbazia.
Era grande, bella e potente.

Edificato dai monaci di Montecassino, figli spirituali di San Benedetto, il complesso monastico esisteva ancora prima del documento ufficiale dell’anno 884, come tempio pagano donato dai patrizi romani Tertullo ed Equizio.

L’antica e nobile chiesa abbaziale del “Sanctus Liberator ad Majellam”, esiste ancora! E’ sempre qui a Serramonacesca di Pescara, immersa nel verde e nella quiete della storia, testimone silente del passaggio di Carlo Magno.
Il condottiero se ne volle impossessare dopo la sua vittoria sui Longobardi del 781, nella sconosciuta battaglia di Serra e Manoppello.

Ancora oggi una grotta è chiamata “dei Paladini” o”sepolcro dei Franchi” in ricordo dell’epopea carolingia in Abruzzo.

“Serra Monacorum”, quale nome migliore per evocare il legame di questo pezzo di Maiella con la vita monacale che un tempo esprimeva un tesoro d’arte come l’abbazia di San Liberatore e un paio di eremi abbarbicati tra i monti?

Ogni volta che arrivo in questo piccolo agglomerato di case mi sento libero e felice.
Nell’antica terra dei priori oggi sono circa settecento le anime sparse.
Molte di meno di quelle che hanno varcato i confini, emigrando per il mondo in cerca di fortuna.

Basta venire sin qua una sola volta per rendersi conto del perché tanti stranieri abbiano deciso di acquistare rustici da queste parti per godere di tranquillità.

Serramonacesca è un borgo in pietra, alle pendici settentrionali della Maiella, sopra il frastagliato corso del fiume Alento, in un lembo di territorio pescarese tra i più ricchi di antiche memorie, leggende, e monumenti di rara bellezza artistica.

La storia di questa terra va cercata, scoperta e decifrata, esplorando con pazienza le pieghe della montagna e della memoria.

Tra le rocce e gli arbusti scorre una linfa spirituale che fa di questa valle un luogo sacro da vivere intensamente.

Dal condottiero Carlo Magno, la grande chiesa, immersa tra i boschi, prese il nome di “liberatore”, non inteso come santo comune ma come Divino Liberatore di ogni peccato, il Cristo Risorto.

Nelle vicinanze, fu costruito Castel Menardo, fortino per la guarnigione deputata al controllo della valle del Pescara.

Avvenne anche nella mitica Roncisvalle dei Pirenei, dove Carlo fece edificare, per ringraziamento dopo la vittoria sui Mori, una basilica simile a quella del piccolo borgo pescarese.
Né guerre, né saccheggi, né il terribile terremoto del 990 ha sfibrato i fianchi di questo tempio.

I monaci ricostruirono la basilica, ancora più bella, dimorando, durante i lavori, in povere casupole di legno, sotto l’attenta supervisione prima del priore e architetto Teobaldo, poi del reggente Adenulfo. Prese, infine, il volto attuale di gioiello d’arte romanica cassinese.

Guardare questa chiesa, è come vedere l’impetuoso effetto del passare degli anni sul volto di una donna a suo tempo bella e affascinante, oggi ancora attraente.

Il rettore che abita in paese, officia di domenica messe anche in latino e con massima disponibilità illustra le bellezze del luogo santo.

In una domenica di Pentecoste mi capitò, insieme a una famiglia di Cuneo, di assistere a questa celebrazione.

Ricordo mi colpì l’ottima pronuncia del prelato e i suoi occhi profondi e incavati che cercano prima che la tua intelligenza, il cuore.
C’è anche una dinamica associazione di giovani che offre servizi vari come accompagnamento e organizzazione matrimoni.

La grande chiesa è immersa nel verde.
C’è un singolare campanile in stile lombardo a triplice elevazione con finestre a piano che dona unicità al tutto.
Spingendo in avanti l’antica porta si sprofonda nelle tenebre.

La navata centrale pare imprigionata dapprima nel buio, poi gli occhi si abituano e iniziano a vedere gioielli senza tempo, tracce di affreschi bruniti dai secoli, icone rossastre e oggetti che paiono contendere ad altri le gocce di luce distillate dalle piccole finestre.

Tutto qui ha un suo equilibrio interiore: il sagrato in pietra, le basi sagomate delle colonne, i portali con leoni e foglie di palma scolpiti negli architravi.

Fanno bella mostra di sé, tre navate a pianta basilicale che s’innalzano sopra un pavimento cosmatesco, simile a quello della grande abbazia di Montecassino, composto con pietre intrecciate in disegni geometrici di maestri bizantini e il meraviglioso ambone, oggi non originale, delle proclamazioni bibliche e delle predicazioni.
Gli affreschi raccontano dei patrizi romani, di Carlo Magno, dei priori succedutisi alla guida del complesso e poi di San Benedetto il padre dei monaci, seduto in trono con la regola monastica dell’”Ora et Labora”.

 Meta di monaci e anacoreti che abitavano in celle scavate a grande altezza nelle rocce sospese sul fiume, uomini che inseguivano paesaggi santificati, questo luogo è bellissimo.

Il grande prato verde con annessa area faunistica in cui vive un bel capriolo nato nel 2006, il sentiero didattico che scende verso il fiume Alento con una cascata che romba proprio vicino ai resti di tombe rupestri, tutto invita a rimanere entusiasti.

Monasteri, forti, cimiteri, lazzaretti mangiati dal tempo tra cespugli d’incuria.
Tutto maledettamente bello!

Serramonacesca si raggiunge attraverso la A 25 Pescara Sulmona, uscita Scafa, poi S.S. 539.

Non dimenticate di visitare le tombe rupestri lungo il fiume.
E' un affascinante viaggio nel tempo attraverso la più grande forma di devozione dell'uomo verso il Creatore! 

=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================

martedì 17 settembre 2013

“Tocco senza vento, diavolo senza denti”. Nel regno di Casauria

Tocco da Casauria è un avamposto hi-teach di energia alternativa.
È un piccolo comune ai piedi della Majella, ai confini con le rocciose gole del centro termale di Popoli, teatro di scatenati rally internazionali automobilistici lungo le sue mitiche “svolte” ma è il simbolo della green economy internazionale!
Roba da non credere!

Pensate un po’, un paese con pensionati che giocano a briscola, badanti rumene e tante case vuote che si riempiono solo in agosto. Eppure dell’abitato ha parlato il “New York Times”definendolo un modello di sviluppo sostenibile.

“Tocco senza vento, diavolo senza denti”, scrisse poi il Corriere della Sera, riportando la frase di una signora del bar di fronte al municipio.
Niente di più vero!
Che Tocco sarebbe senza le sue belle raffiche che agitano continuamente le pale eoliche, torri da sessanta metri che girano per l’intero giorno, dando energia a tutto per chilometri e chilometri?
Il giorno, con il sole alto, ha ripreso un po’ di colore come le guance dei bimbi dopo la malattia e la convalescenza.

Mentre mi accingo a fotografare in una luce quasi perfetta le macchine rotanti, dopo aver a fatica raggiunto il colle dove si trovano, mi si para davanti un elegante signore di circa settant’anni dalla faccia simpatica e buffa.

È proprietario di una villetta malmessa ma ubicata in un posto incantevole tra il verde degli ulivi.

C’è un orticello e un giardino con rosmarini, alloro, un melograno da frutta e una pianta di limoni a spandere profumi.

In breve mi racconta di vivere gran parte delle sue stagioni a Roma ma che in estate torna sempre in questa casa che volle costruire tanti anni fa, tra i risolini dei concittadini che lo credevano pazzo per isolarsi così.
Dice che nella capitale soffre di male alle ossa e crampi ai polpacci.
Qui no, qui i dolori scompaiono miracolosamente!
E di notte confida di ascoltare con gioia i rumori del buio e i gorgoglii della natura, intervallati dai fruscii dell’aria smossa dalle pale.

Oggi molti hanno offerto pozzi di soldi per la vendita della proprietà, ma lui ha sempre cortesemente rifiutato. Si dice convinto che la morte lo coglierà qui, intento ad annusare i profumi della sua terra.

Sono fuori il paese, tutto dovrebbe essermi estraneo, eppure un perfetto sconosciuto mi offre amicizia, m’introduce nel giardino, offrendomi una deliziosa fetta di anguria fresca.

Mi consiglia, in paese, pane di Tocco con prosciutto tagliato al coltello.

C’è un genere alimentare che prepara questa bontà di Dio!

Gran comunità quella dei “toccolani”.
Si danno tutti da fare, chi nel campo enologico, chi nel commercio, chi nel teatro.
Ci sono anche pastori che un tempo risalivano il tratturo dall’abbazia di San Clemente a Casauria, su per Campo Imperatore.
Oggi i transumanti usano camion moderni per spostare velocemente le greggi e le stalle sono governate con il vento e il sole che alimentano frigoriferi e macchine per produrre formaggi.

Una gustosa leggenda riportata proprio dal Corriere che racconta di un D’Annunzio che qui creò i presupposti per la realizzazione della sua grande opera “La figlia di Jorio”, dopo aver appreso la storia di una ragazzina che fuggì tanti anni prima per salvarsi dalla furia erotica di un branco di ragazzi ubriachi.

Il paese antico è bello da visitare.
Quattro vecchi sono intenti al gioco delle carte.
Uno di essi, guardando la mia Nikon, mi chiede se sono un reporter americano. Gli amici lo prendono in giro.

Mi dicono che ha una fibrillazione atriale e che ogni tanto il cuore perde colpi e il cervello ne risente.
Qui ormai sono abituati alle visite oltre oceano dopo la vicenda dell’articolo.

Fa piangere il cuore, l’abbandono del castello, reso ancor più pericolante dal terremoto del 2009 e transennato ovunque.

Lo trovo invaso da erba alta, rifiuti e gatti randagi.
È l’unica nota stonata!

Raggiungete Tocco da Casauria percorrendo la Tiburtina Valeria km.190, bivio Tocco.
A25 Roma Pescara, uscita Torre dé Passeri/ Casauria se provenienti da Pescara o uscita Bussi sul Tirino se provenienti da Roma. 

=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================

lunedì 16 settembre 2013

Il lato oscuro di tutti noi: storie di streghe nel teramano

(Con le foto dei paesi abbandonati del mitico Alessandro de Ruvo!)

Nelle nostre campagne, lì dove l’influenza del progresso non ha inciso in maniera profonda, la superstizione è ancora un sentimento dominante.
 Sembra impossibile ma ancora oggi quando accade un qualcosa di negativo c’è chi ritiene sia opera di malefici, fatture ordite da chissà quale nemico, stregonerie o invidie di vicini di casa.

Molte sono le armi per fronteggiare queste evenienze: scongiuri, filtri, amuleti e soprattutto “lu breve”.

I “Magaròne ” sono gli specialisti di questi riti a metà strada tra magia e creduloneria, i quali con l’ausilio di una camicia o altro indumento del malcapitato, capiscono se la “fattura” (qui non c’entra l’iva naturalmente) è leggera o a morte.
Il “Breve”, racconta un vecchio signore, vera enciclopedia vivente, dovrebbe essere composto dalla terra di tre padroni, sale, pezzetti di candela benedetta, il tutto avvolto in un piccolo sacchetto da portare dietro.

La figura della strega resiste strenuamente alla caduta di tutti i miti fagocitati da un mondo in continua evoluzione.
Nei paesi della Laga si crede ciecamente alla sua esistenza e la si considera “ una forza del male”.

Ancora oggi, d’estate, quando il caldo è torrido, si usa comunque chiudere tutte le finestre di notte, perché le streghe sotto forma di piccoli animali, ragni, farfalle, mosche, potrebbero entrare e succhiare il sangue dei bimbi piccoli di cui sono estremamente ghiotte.

Il “Breve” portato addosso potrebbe tenere lontano queste creature malefiche.
Molte storie si tramandano come quelle raccontate da alunni della Scuola Media Giovanni XXIII di Torricella Sicura che, in un pregevole lavoro coordinato dall’intraprendente Prof.ssa M.Gabriella Di Flaviano del 1983, intervistarono vecchi abitanti delle frazioni limitrofe per ascoltare storie che hanno dell’incredibile.

Come quella del Sig. Attilio di Poggio Valle il quale aveva una splendida cavalla che due volte la settimana era presa dalle streghe le quali dovevano recarsi ai raduni di magia sotto i proverbiali alberi di noce.
Di mattina l’agricoltore trovava oltremodo sudata la bestia, in costante nervosismo, stanchezza e con la criniera divisa in piccole trecce meravigliosamente fatte non certo da opera umana.

O ancora l’incredibile vicenda di una donna di Paranesi, tal Emilia, la cui sorella era caduta preda di questi esseri malvagi.
La bambina piangeva, si disperava rotolandosi a terra.
Le streghe, a suo dire, le succhiavano il sangue e il corpicino era pieno di lividi con punti rossi.

Recatosi da un “magaro” della zona, il padre, sull’orlo della disperazione, ebbe l’ordine di prendere i vestiti della piccola, portarli a un incrocio e picchiarli con più forza potesse.
Nel fare ciò, l’uomo sentì urla e strepiti dallo spirito della strega che dovette abbandonare la sua preda e fuggire lontano.

A proposito di alberi di noce, qualcuno avrà letto delle incredibili storie legate alla Fonte omonima a Teramo.
Qui si radunavano due volte l’anno tutte le streghe dell’Italia centrale che di lì a poco avrebbero raggiunto Benevento, in un luogo sperduto in mezzo alla campagna, sotto un gigantesco albero, naturalmente di noci.

Avvenimenti cui tutti noi facciamo fatica a credere, ma gli anziani non mettono in dubbio l’esistenza di questi esseri malvagi, pena una vendetta atroce nei confronti dei miscredenti.

Un’anziana di Valle Castellana, la sig.ra “Linuccia” raccontava che era assolutamente da evitare incroci di strade tra il martedì e il venerdì dalle ore 24,00 alle 6,00, pena incontri sgraditi con creature pericolose, dai capelli scarmigliati, le pupille dilatate e lo sguardo spento che a volte si risveglia, lanciando strali con gli occhi rossi.

Leggende che aiutano a capire la forza della superstizione e il lato più oscuro di tutti noi.

Visitate il sito internet di Alessandro de Ruvo;
www.adrphoto.com

=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================

domenica 15 settembre 2013

L’eterna lotta tra il Bene e il male: Santa Maria Arabona

“La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce”. (Romani 13,12)

Il sole è appena nato ma già l’angusta via risuona del martello sulla pressa del mastro ciabattino.
Sulla vetrata del piccolo laboratorio, una bottega umida colma di calzature dove le scarpe da consunte riescono quasi nuove, c’è l’effige di San Crispino il patrono dei calzolai.

Un santo che aveva percorso così tanta strada per annunciare il Cristo, da morire quasi scalzo.

Rocco è l’ultimo di questi aggiusta scarpe che trinciano cuoio come nel secolo scorso.
E’ la vecchia guardia che sta scomparendo sotto i colpi impietosi del tempo.

Tira su rumorosamente col naso, ci passa sotto il dorso della mano per asciugare le gocce.

Si aggiusta, quasi si vergognasse di esser preso per trasandato, il suo grembiale nero, odoroso di colla e cera d’api, allarga le braccia e dice:
“E che vuoi che ti dica? La gente oggi, la calzatura che ha fame e apre la bocca, non l’aggiusta più. Nel negozio se la compra nuova a 20 euro! Certo, non scricchiolano come quelle di costoso artigianato. Nelle scarpe di oggi c è solo il collante”.

Pensare che a Tolentino nelle Marche, non così lontano, un tempo c’era l’università per apprendere l’arte del conciare le pelli, montare tomaie e preparare calzature a mano e oggi non c’è quasi più chi ripara i tacchi.
Mi guardo intorno e osservo gli utensili abbruniti dal tempo: raspe, spazzole, martelli.

“Ho provato a portar su un ragazzino, a insegnargli il mestiere. Gli ho detto, giovanotto se sbagli a piantar chiodi sulla suola, poi l’orlo viene storto e la tomaia non regge. E lui sapete che ha risposto? Vecchio mio, questo mestiere è per chi vuole morire di fame e non per me. E non l’ho visto più”.

Come dargli torto?
Ogni scarpa riparata rende si e no cinque euro e in Italia, nell’ultimo censimento sugli artigiani calzolai, gli esemplari in estinzione sono rimasti tremila circa.
Non più di cinque anni fa erano oltre 4500!

L’anziano artigiano, originario della valle dell’Aventino, conosce tante storie che è un piacere ascoltarlo.

Racconta di Alanno, borgo appeso su di una collina sopra la valle del fiume Pescara, luogo un tempo ricco di ville romane, battuto spesso dalla furia del vento proveniente dalle gole di Popoli attraverso Casauria.

Nel paese si venerava San Clemente cui è dedicata la bella abbazia vicina.
La statua, opera del ‘400 della bottega abruzzese di Guardiagrele, pare si voltasse ogni qualvolta era in arrivo una tempesta di vento, riuscendo a placarla con lo sguardo.
Il vecchio si è accorto dal mio sorriso sarcastico che non credo a questo tipo di devozione e rincara la dose.

Mi parla del Santissimo Crocefisso di Taranta Peligna che un contadino, nell’ottocento, trovò sotto terra mentre arava il suo campo.
Gesù, nella croce di legno, appare nello spasimo dell’agonia e non ancora morto, bocca semi aperta e respiro affannoso.

Il Cristo pare abbia protetto per molti anni le famiglie locali dalle disgrazie e calamità e qualcuno è andato sotto terra con la convinzione che il Santissimo sia anche sceso da quella croce per svolgere meglio il suo compito.

Il mio interlocutore crede infinitamente nei poteri taumaturgici della religione.
Mentre vado via, mi ammonisce sibillino:
“Guarda attentamente il Male e il Bene nell’abbazia, ora che vai a visitarla. Sappi che ancora oggi combattono furiosamente e non sempre a Manoppello trionfa il bene …”.

Santa Maria d’Arabona è trascurata dai grandi circuiti turistici- religiosi.
Eppure la badia è uno dei più importanti esempi tra le grandi chiese costruite dai Cistercensi, quando giunsero in Abruzzo alla fine del XII secolo, a quaranta anni circa dalla fondazione dei primi monasteri nel Regno di Sicilia.
Qui sono passate molte etnie d’oriente: albanesi, slavi, greci, arabi.

La situazione del monachesimo benedettino mostrava, allora, una fortissima presenza di patrimoni appartenenti a grandi insediamenti fuori regione, come Montecassino, S. Vincenzo al Volturno e S. Maria di Farfa, e una serie di siti autonomi.
Il principale di questi era quello di S. Clemente a Casauria.

Ma, credetemi, ce n’erano tantissimi: San Salvatore a Majella, San Liberatore, San Martino della Valle.

Tutti posti che rendevano bene la quotidianità dei monaci, ritmata dalla preghiera, dalla liturgia, dalla fraternità sobria, dalle giornate semplici fatte di umile lavoro e vicinanza spirituale alla popolazione dei villaggi intorno.

I monaci erano i rami, la gente gli uccelli che vi si posavano.

Nel 1191 era stata edificata Santa Maria di Casanova, nel 1209 furono innalzate proprio le mura di Arabona, diretta derivazione dell’opulenta abbazia di Casamari, raggiungibile attraverso l’autostrada Frosinone Sora.
Di questo importante esempio di architettura gotica cistercense, il complesso pescarese propone in parte la pianta.
Le stesse maestranze realizzarono poi la costruzione del piccolo monastero di Santo Spirito, a picco d’aquila sul paese di Ocre, oggi convento francescano.

Il nome dato alla badia di Manoppello scalo, che a quel tempo servì come tessuto connettivo religioso e sociale delle campagne circostanti, sembra fosse collegato al culto italico della dea Bona.

L’abbazia è rimasta incompiuta e in tempi recenti è stata realizzata una poco attraente parete in mattoni.

Quello che può motivare una visita sono i due elementi in pietra bianca, tabernacolo e cero pasquale che racchiudono in sé la storia della salvezza dell’uomo scolpita con incredibile maestria da un artista a me sconosciuto, beata ignoranza.


Il tabernacolo, retto da due esili colonnine, ricorda l’importanza della sapienza cui l’uomo deve tendere, custodendo gelosamente libri sacri e oggetti di culto a Dio.

Il candelabro ha invece in sé una moltitudine di significati allegorici.
Alla base si trovano quattro animali, tre dei quali ancora visibili.
I due cani e i due leoni rappresentano il peccato.
Il male, tra menzogna ed eresia, aggredisce l’uomo allontanandolo dalla salvezza.
Il cane si morde rabbiosamente una zampa a significare che il peccato lacera se stesso senza posa.

L’altro animale, con la testa all’indietro, simboleggia il peccato verso Dio che svuota la vita di ogni significato.
Le deformità delle figure animalesche ammoniscono sul deturpamento che il peccato opera in noi.

Nel capitello si riprende il tema della vite e dei tralci attaccati a essa.
Foglie e grappoli d’uva avvolgono a spirale il fusto della colonna che simboleggia la figura del Cristo cui il tralcio, cioè il discepolo deve rimanere ancorato per avere la vita eterna.

Chi andrà a vedere questa meraviglia, troverà nella parte culminante del cero, dodici piccole colonne a simboleggiare gli apostoli e la chiesa con la propria vocazione e missione.

Tra la base del candelabro e la parte alta, l’autore ha inserito una colonna centrale assolutamente nuda, liscia, una barriera invalicabile fra il cristiano nella grazia e il peccato originale.


Per raggiungere Santa Maria d'Arabona, ai piedi del versante settentrionale della Majella, percorrere l'autostrada A 25 direzione Pescara, uscita casello Alanno- Scafa. Da Pescara con la S.S. 5 Tiburtina Valeria .

=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================

sabato 14 settembre 2013

L’Oratorio dalla crociera celeste: Nel regno del Barocco abruzzese a Pietranico

“Ponimi come sigillo sul tuo cuore e sul tuo braccio. Forte come la Morte è l’Amore, tenace come il Regno dei morti è la Passione, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma divina”! (Cantico dei Cantici 8,6)

La strada, tortuosa, sale verso Pietranico, porta sud del Parco Nazionale Gran Sasso Monti della Laga.

Da tempo in questi luoghi gli ambientalisti combattono per la creazione di una riserva naturale nella vasta e incontaminata zona naturalistica che costeggia il fosso Rota, non lontano dal borgo semi abbandonato di Corvara e luoghi d’incanto come Pescosansonesco e Castiglione.

E’ un territorio tutto da scoprire tra antiche fonti, sorgenti, vasche riconosciute dalla Soprintendenza Archeologica come “beni di pregio”e ottima gastronomia, con cibi conditi dall’olio Dop Aprutino pescarese e accompagnati dal Montepulciano di Casauria, tra i migliori vini italiani.

Un territorio che fu, in parte, della provincia teramana, fin quando nel 1927 fu istituita quella di Pescara.
Da allora Teramo ha perso inestimabili gioielli artistici.
Qui l’isolamento del borgo non è un handicap ma un valore aggiunto.
Ciò che rende la visita indimenticabile, credo sia l’oratorio di Santa Maria della Croce, la chiesa che celebra l’Annunciazione alla Madonna, autentica perla artistica e centro di devozione mariana.

Il noto critico d’arte teramano Giovanni Corrieri, in un articolo rimarca “l’elemento meraviglia consistente nel passaggio repentino dall’austera sobrietà dell’esterno, al tripudio decorativo dell’interno”.

La storia di questo gioiello fuori dalle direttrici canoniche della viabilità corrente, ubicato all’interno di un millenario percorso di tratturi e di fede, è rinvenibile nella scritta in parte rovinata, dipinta all’interno sopra l’ingresso.

Vi si racconta che in contrada Croce esisteva una piccola cappella agreste prima che apparisse la Madonna a chiedere un luogo più consono per dedicarle preghiere.

“Maria apparse con veste bianca stellata a Domenico Del Biondo della terra di Pretanico andando vedendo il suo seminato ….” (Dall’iscrizione sopra l’ingresso trascritta nel 1878 da Antonio De Nino storico ed etnografo)

Mentre la mia 207 si rifocilla al distributore, il contadino, alla mia richiesta d’informazioni, disegna sul viso un ghigno indefinibile.

Borbotta che la chiave della chiesa è da chiedere alla “santa”. Non capisco se questa signora è definita tale scherzosamente o se da queste parti si diventa santi per volontà popolare.

L’uomo accende la sigaretta, espira una densa nube di fumo azzurro, poi stancamente indica la via da seguire.

La custode è una cordiale bionda di nome Dora che un tempo doveva essere avvenente.

Ha un vestito molto colorato con una scollatura ampia che scende su di una spalla.
Svela di essere stata ricevuta dal papa Wojtyla cui ha donato una pubblicazione sull’oratorio e di essere stata intervistata da Rai Tre sull’apparizione della Madonna.
La Vergine Maria si sarebbe palesata nel 1614 al solito pastore che non manca mai nelle presunte apparizioni mariane. La “dolce signora” aveva una stella con quattordici punte come le stazioni in pietra della Via Crucis che dall’oratorio portano, in tre chilometri, nella piazza del paese.

Il borgo conta circa settecento anime che vivono a ritmi lenti, segnati dalle stagioni agricole.
Qui la venerazione per la Madre di Cristo è enorme.

Il due di maggio al calare della sera, nell’ora del Vespro, si svolge una processione che rappresenta una delle manifestazioni storiche - religiose tra le più interessanti d’Abruzzo, una devozione popolare riconosciuta dal Ministero dei Beni Culturali di notevole interesse etnologico e antropologico.

All’interno della chiesa vive un mondo assolutamente inaspettato. Le solide mura esplodono in uno spettacolare trionfo di stucchi, oro e colori, opera di maestri del ‘600.

Le decorazioni sono forse uniche per quantità e qualità in tutto l’Abruzzo.
La figura dell’Onnipotente con la Vergine Maria non è una sontuosa metafora o una licenza poetica ma una rappresentazione viva in cui si fonde la memoria del mondo.
Qui si custodiscono dipinti che possono anche non piacere ma che trasmettono comunque emozioni.

La dimensione temporale della vita terrena scompare, inghiottita dalla gloria ininterrotta dell’eternità con le figure della Trinità a vigilare sul cammino di santità cui tutti dobbiamo tendere.

Le opere, vere architetture di luce, aiutano a confidare in una sorta di crociera celeste su cui contare alla fine di questo passaggio sulla terra.

La parte più ricca del complesso si trova nelle campate centrali, dove si ammirano ben diciotto episodi della Passione del Cristo in stile barocco. Sono notevoli gli stucchi.

Tra cornici e dorature, trovano spazio mascheroni, figure di puttini e santi celebri come Antonio da Padova, Gregorio Magno, Biagio e Giuseppe. Tutto bello ma pesante nello stile.

Ovunque sembra che il tempo si sia fermato.
I villaggi, da queste parti, sono pieni di vecchi prosciugati da decenni di duro lavoro e vita grama.
La ruggine sbriciola i cardini delle porte, le ragnatele disegnano ghirigori nelle case assediate dagli abbandoni.
Ho incontrato una deliziosa bottega che vendeva cesti in vimini di ogni formato e anche un inedito lampadario di corda intrecciata.
Ho visto anche degli utensili strani.

Un’anziana donna con gentilezza mi ha informato che si trattava di una “bruscola”, oggetto usato per la raccolta delle olive e un “graticcio”, sorta di rete dove stendere i fichi a essiccare.
Non lontano s’innalzano colline ricche di vigneti al culmine di curve tibetane.
Da secoli qui è stata introdotta l’agricoltura irrigua, canalizzando l’acqua e riempiendo la zona di oliveti e viti.

La cura dell’uva in altezza è difficilissima.
Le vigne sorgono su terreni pietrosi e scoscesi, sono molto basse e hanno difficoltà a prendere il giusto calore del sole e quello della terra.

Eppure, questo lavoro duro che l’uomo fa in modo tradizionale perché l’uso dei mezzi meccanici è quasi impossibile, regala buoni frutti.

La terra, diceva un coltivatore mio amico che oggi cura le sue distese in Paradiso, non tradisce mai.

E poi, continuava con un motto fascista, “non siamo fatti per la vita comoda”.
Famose da queste parti le tenute delle cantine Zaccagnini e Valentini che si estendono da Loreto Aprutino fino alle porte del vicino Parco della Majella.
Hanno vigneti e proprietà terriere risalenti al 1500.

Per raggiungere il gioiello del Barocco abruzzese a Pietranico, raggiungere il casello di Torre dè Passeri sulla A 25 Pescara Roma. Imboccare la statale che porta fino a Brittoli e Civitaquana.

=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================

venerdì 13 settembre 2013

Il dominio della natura: La costa dei Trabocchi

Vento teso di bora, mare color zinco che picchia sulla scogliera.
Si parte a piedi sull’antico tracciato ferroviario in disuso.

Il doppio colpo della littorina sui giunti del binario, è stato soppiantato dal muggire rabbioso delle onde sbattute sui sassi, a riva.

Siamo su di un balcone proteso stupendamente sul mare.
Oltre cinquanta chilometri dei circa cinquemila percorsi ferroviari dimenticati, patrimonio perfetto per rilanciare la “mobilità dolce” dopo anni di delirio gommato, di strade piene di polveri sottili che passano i limiti di legge un giorno sì e un altro pure.

“La ferrovia è un ostacolo alla crescita” dissero e di colpo il percorso sul mare divenne obsoleto.
Il Genio Ferrovieri si mise in movimento e in breve nacque una nuova linea in collina.
La breccia rettilinea soffre oggi l’abbandono, contornata com’è da sterpaglie, forse un giorno sarà finalmente una pista ciclabile affacciata sull’infinito.
E’ sempre pronto il progetto del Corridoio Verde Adriatico da Martinsicuro fino a Vasto in bici.

Il mare spumeggia lontano dall’insulto del cemento.
Soffia forte il vento sul pittoresco costone roccioso a picco sul mare dell’antico nucleo di San Vito.
Pare quasi che un capriccioso Eolo, soffiando forte, si sia divertito a scaraventare un mucchietto di case fin lassù, quasi a toccare il cielo.

Lo spettacolo, dall’ardito balcone, è di quelli che lasciano senza fiato.
Lo sguardo, rapito, scorge in lontananza la collina di Venere col monastero di San Giovanni, poi Punta Aderci della Penna di Vasto, paradiso naturale e giù fino alle isole Tremiti.
Sotto il costone ricco di ginestre, c’è il trabocco descritto dal poeta D’Annunzio: "... proteso sugli scogli, simile a un mostro in agguato, con i suoi cento arti..."

I “trabocchi”sono delle ingegnose macchine per la pesca dalla riva.
Per mezzo di passerelle e con la rete agganciata a lunghi bracci a bilanciere, permettono di raggiungere anche senza barca, punti dove l'acqua é più profonda e pescosa.
Le vedette sul mare, ancorate agli scogli, sornione e silenziose, sono fedeli guardiani delle bellezze della nostra costa.

La loro origine si perde nella notte dei tempi.
 L’invenzione è stata originata dalla paura che l’uomo provava, nell’avventurarsi in mare aperto.
Quando qui infuria la tempesta, c’è da aver paura.

Un’antica leggenda racconta che, sullo scoglio sottostante l’eremo dannunziano, pochi tornanti dalla marina di San Vito, lì dove usava rifugiarsi il Vate per creare le sue opere, siano ancora visibili due impronte di zampe animalesche.

Sarebbero i piedi del diavolo che balla per la gioia di vedere i marinai, inghiottiti dai flutti, morire nel peccato.

Lungo la piccola spiaggia sottostante, scatarra, sibila il motore di una vecchia barca.
Il pescatore bestemmia con grida disumane fin quando, come in un simpatico cartoon di Topolino, la piccola imbarcazione guadagna il largo.
Lontano, sulle colline che guardano la Majella e il Gran Sasso, le bretelle autostradali sconciano la valle in nome di un progresso che non si può arrestare.

Lo sguardo a nord arriva fino al promontorio di Ortona con il suo singolare campionario di fortificazioni: tre torri e un castello.
Torre Mucchia è una vedetta costiera, Torre Baglioni apparteneva alle mura fortificate della città e Torre Ricciardi era inglobata in un palazzo gentilizio.

Il castello è posto ai margini dell'abitato, in una posizione spettacolare a strapiombo sul mare e fu edificato a metà Quattrocento dagli Aragonesi.
Dell'impianto originale rimangono parte di mura esterne e torri affacciate verso la città.

Qualche chilometro più a sud, senza allontanarsi dal mare, si staglia, maestoso, un altro bellissimo castello aragonese, quello di Vasto situato sulla collina dov’è adagiata la città alta.

Era dimora di Jacopo Caldora, cavaliere di ventura e connestabile, personaggio di grande carisma e cultura.
Non tutti i mari sono uguali.
E’ proprio vero.
Come tutte le terre ognuno di essi ha le sue caratteristiche di colori, d’intensità dei profumi, di forme delle onde.
Alcuni però si distinguono nettamente.

Il mare della costa dei Trabocchi, è un universo affascinante, impreziosito talvolta da coreografici insediamenti umani.
Sfregiato altre volte da un’incuria che non esiterei a definire criminale.
Dall’altra parte c’è il verde delle colline, con campi pettinati di zolle arruffate come capelli di una donna riccia dove si adagiano piccoli centri, all’apparenza inutili contenitori di mura imbiancate e finestre, ma la cui storia millenaria si può leggere solo nelle loro viuzze strette.

Mi trovo davanti all’ingresso del trabocco. Qui mi dicono si mangi da re.
Pesce appena pescato con le reti protese sul mare.
Mi si para davanti la cuoca proprietaria che, nel frattempo, continua a parlare in italiano e a tratti in tedesco con alemanni giunti fuori stagione.

“Queste acque - urla con linguaggio misto al dialetto locale - sono piene di fantasmi che si aggirano nel profondo”.

Poi si accorge di essere stata forse troppo inquietante e aggiunge:
“Sono tanti i pescatori ghermiti dal mare in tempesta che preferiscono girare alla larga dai turisti!”
Tutti scoppiano in una fragorosa risata.
Un gabbiano stridulo, si abbassa a pelo d’acqua, volteggia, lancia il suo grido rauco, poi riprende quota puntando dritto verso il trabocco.
Il legno sembra assorbire dai suoi lunghi pilastri tutto l’umore e la salsedine del mare.

La cucina dentro è qualcosa d’inimmaginabile tra bottiglie, spezie, barattoli, riso, padelle grigie e pesanti con manici in ghisa.
Il caldo oggi si fa ancora sentire, è opprimente, avvolge tutto come marzapane rendendo difficile ogni movimento, ogni pensiero o gesto.

La vista, dal trabocco, spazia su di una piccola darsena tra barche di mille colori, intrise dell’odore del pesce e della salsedine.

Le reti sono pazientemente dipanate e riavvolte da mani esperte.
Sono pescatori da una vita, figli anch’essi di uomini del mare.

Le donne con la proverbiale pazienza certosina ricuciono, rammendano gli squarci nelle reti determinati dal dimenarsi del pesce in trappola.
Al porticciolo si avverte forte il contatto del mare.

Guardo l’aquilone volteggiare nel cielo ventoso.
Capisco perché il D’Annunzio scriveva: “ O desiata solitudine, lungi al rumor degli uomini, o dolce speco d’incanto….”

COME ARRIVARE
In auto: da Bologna Autostrada A14 uscita Pescara Nord; 
da Bari Autostrada A14 uscita Pescara Ovest;  
da Roma Autostrada A25 Roma-Pescara uscita Chieti-Pescara.
Le località costiere dell'Abruzzo si trovano sulla dorsale ferroviaria adriatica che collega i grandi centri del Nord e Bologna con la Puglia.
Per raggiungere Chieti, collegamenti diretti partono dalla stazione di Pescara.
La stazione ferroviaria ad alta percorrenza più vicina a Teramo è Giulianova; da lì partono treni locali diretti a Teramo.

=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================