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domenica 28 dicembre 2014

San Pietro alla Ienca: dove Wojtyla amava pregare!

L’imponente statua bronzea di Karol Wojtyla, capolavoro d’arte sacra dello scultore Fiorenzo Bacci, mi accoglie proprio davanti alla chiesetta montana di San Pietro alla Ienca.

Mentre arrivavo in questo luogo bellissimo, da dove si gode la vista di boschi immensi, si discuteva sul nome.
In qualche sito internet troviamo Ienca con la J, in altri è lo Ienca e non la Ienca, addirittura nel sito della Regione in un punto si trova indicato con la G!

Rimane comunque, di là dalla disputa sull'etimologia, un posto bellissimo.
Guardo intensamente la figura del papa santo che, avvolto in vesti liturgiche, pare vera.
Gli occhi appaiono rivolti al futuro e con la mano benedicente pare indicare che il cammino verso il Regno dei Cieli passa attraverso la splendida valle del Vasto, ai piedi del Gran Sasso.
Le sopracciglia e le pieghe caratteriali del volto leggermente corrugato, sembrano formare il disegno di una colomba e i piedi scalzi, come novello San Francesco, ricorda la sua infinita voglia di pace nel mondo, che ha ricercato senza posa per tutto il suo pontificato.

Il “Totus tuus”, motto del suo papato, ricorre idealmente nell'immagine del Cristo Risorto sulla sua mitria, mentre dei piccoli chiodi ricordano l’immensa sofferenza degli ultimi anni di vita.
Sulla stola c’è la celebre frase “Non abbiate paura”, che disse ai giovani nella ormai famosa prima Giornata della Gioventù.

Nella mia mente torna un’immagine molto cara: il ricordo di una Pasqua in cui la televisione mostrava un diacono incensante che cantava il testo evangelico della solennità.
Il religioso, finita la proclamazione, richiuse il testo sacro, lo elevò e lo portò, processionalmente, verso Giovanni Paolo II che presiedeva la celebrazione liturgica.
Fu allora che le telecamere, impietose, indugiarono su di un pontefice sofferente che, con gran fatica ma con gioia negli occhi, accolse baciando il libro dalla legatura argentea tempestata di gemme, per poi benedire l’assemblea tutta.

Oggi, fresca mattina di un giugno del 2014, il borgo di San Pietro è vuoto.
Il minuscolo abitato è uno dei tanti agglomerati sub urbani che nel secolo XIII, fondarono quella che poi sarebbe diventata la città dell’Aquila.

Quando la vallata si popolò grandemente, il piccolo villaggio divenne semplice appoggio per attività agricole e per pastorizia, luogo di scampagnate familiari e di camminate solitarie.

Le case abbarbicate su di uno sperone roccioso che sbarra il vallone del Vasto, grazie alle ripetute visite del “Papa Grande”, sono diventate famose per essere situate in uno dei luoghi dello Spirito più importanti d’Abruzzo, meta di interesse non solo religioso, ma anche turistico ed escursionistico – ambientale con i suoi bei percorsi per mountain bike o per cavalli e cavalieri.

I proprietari delle casupole che coronano la piccola chiesa e l’antico fontanile pastorale, hanno ristrutturato con garbo, grazie anche alla nuova vitalità commerciale dei dintorni.
Peccato che la chiave della chiesa sia irreperibile, persa nelle tasche del parroco locale che, naturalmente, è difficile trovare, perso com'è tra varie parrocchie distanti tra loro e impegni.

Giro, un po’ deluso, intorno al piccolo edificio che si trova a mille metri di altezza, risalente al secolo XIII, ammirando i suggestivi paesaggi boscosi.
Dietro al tempietto si trovano anche posti, dove poter cucinare carne alla brace e mangiare in allegria.
Sbirciando dal buco della serratura, intravedo a fatica l’unica navata con la volta a botte in pietra. Sempre in pietra è anche l’altarino, luogo della mensa eucaristica.

D’improvviso, la voce sgraziata alle spalle mi fa trasalire.
Il vecchio pastore è caratteristico.
Nell'immaginario davvero potrebbe essere il prototipo del transumante abruzzese.
L’uomo mi chiede cosa stia facendo.
Pensavo fosse chiaro, dico, che vorrei entrare per scattare qualche foto.

Ecco che lui si mette a raccontare una storia incredibile!
Fu lui a vedere il papa, quando giunse su queste montagne, spinto dal suo amore per il creato e il suo Creatore.
Wojtyla, secondo lui, non è mai entrato in quella chiesetta!
Ha pregato fuori le mura perché questa porta è di solito chiusa, mi dice, in chiara polemica con gli addetti comunali o forse col parroco.
Lui ha visto e parlato col papa polacco quel giorno in cui, seduto sullo sperone roccioso più alto verso la montagna, vide salire dalla stradina sbrecciata, una serie di automobili nere, di gran cilindrata e dai vetri oscurati.
Le guardie del corpo, nella prima vettura, si fermarono davanti a lui e chiesero se conoscesse il papa.
“Figuratevi – disse il pastore- se pensavo al papa.
Piuttosto mi preoccupavano i lupi che spesso qui divorano le mie pecore.
Dissi agli uomini con gli occhiali da sole che ... io il papa lo vedevo ogni tanto nel telegiornale della sera, quando faccio cena”.
Si aprì automaticamente una porta della terza auto e dentro, sorridente, c’era proprio il polacco santo!

Il papa parlò qualche minuto col vecchio pastore, declinò ringraziando l’invito di recarsi a casa sua per un assaggio di ricotta e regalò all'uomo un bel rosario con lo stemma di San Pietro.
Il pastore ha onorato questo straordinario incontro, commissionando una stele in pietra, eretta nel punto in cui vide Karol in quel mattino.
Il papa è tornato altre volte, pregando anche nella radura fuori la chiesetta, arricchendo di sacralità il nostro Abruzzo, già attraversato, secoli prima, da un altro pontefice non meno grande, Celestino V, l’eremita del Morrone, l’uomo della Perdonanza.

Oggi San Pietro alla Ienca ha una sua identità, un pezzo di paradiso per tutti e non solo per qualche locale e solitario pastore o escursionista amante della natura.

Dall'abitato chi ha buone gambe può raggiungere il torrione roccioso dedicato al papa e già Monte del Gendarme, 2424 metri di altezza lungo le frastagliate creste delle Malecoste.
Il Gran Sasso serba anche il ricordo del papa alpinista Pio XI cui nel 1929 fu intitolata una cima in prossimità del Pizzo di Intermesoli.

San Pietro è tra Assergi e Camarda, uscita autostrada Teramo L'Aquila Assergi. 
Proseguire non verso Campo Imperatore ma sulla vecchia strada per Teramo via Capannelle. Distanza dallo svincolo autostradale, circa 8 chilometri

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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sabato 27 dicembre 2014

Il teatro delle beffe!

Credo converrete con me che, in qualsiasi città d’Italia, un monumento come il Teatro Romano di Teramo sarebbe il classico fiore all'occhiello del turismo storico e architettonico dell’intero Abruzzo.

Le pietre secolari, raffinate e eleganti, testimoniano la vocazione multi millenaria della terra aprutina, testimone di civiltà antichissime che partendo dai Pretuzi, Fenici, fino ai Romani, caratterizzarono la vita sociale dei nostri luoghi.

Il monumento, al contrario, è segno di discordia e d’indifferenza.
Il meraviglioso Teatro che definirei “delle beffe”, continua da infiniti anni a essere un esempio poco edificante di mala tutela, assolutamente da non imitare, pur essendo, senza dubbio, il massimo bene archeologico in regione.

Insieme a esempi fulgidi come gli antichi centri di Amiternum, in prossimità dell’Aquila e Alba Fucens nel parco Velino Sirente, il teatro rappresenta un unicum anche per la sua posizione al centro della città e per quello che potrebbe rappresentare un percorso archeologico ineguagliabile, tra anfiteatro, terme e antiche stradine romane.
Nonostante le traversie subite il monumento è il meglio conservato tra i teatri del Piceno.

Parliamo, a beneficio di chi non ha mai visitato Teramo, di un’opera prodigiosa dell’era augustea,(30-20 a.C.) uno dei massimi esempi dei tempi d’oro dell’antica Roma, costruita nel secondo secolo dopo Cristo con l’imperatore Adriano.

È un unicum di una città che è un incredibile concentrato di arte e storia, sottovalutata anche dai suoi cittadini che ignorano quale tesoro di percorso potrebbe nascere dalle pietre dell’Anfiteatro del I secolo, la Domus Romana e la successiva basilica del VI secolo d. C..

Oggi, dopo millenni e cataclismi, fra cui quello ultimo, disastroso del sisma nel 2009, il teatro è ancora lì, sebbene soffocato dall'indifferenza e da due obbrobri di palazzi, il Salvoni e l’Adamoli, che dai tempi del
fascismo vengono annunciati in prossimo abbattimento, ma che resistono imperterriti nel rovinare l’insieme e il colpo d’occhio in grado di arricchire il turismo in città.

È ancora al suo posto il vecchio teatro, sebbene rimaneggiato da vari interventi disastrosi come quello in cui la “cavea” venne deturpata dalle ruspe che fecero cadere delle arcate che oggi non esistono più.

Nel frattempo anche il vicino Anfiteatro è stato “violentato” negli anni’60 e ’70 quando improvvide licenze hanno permesso costruzioni come il palazzo vescovile della Curia, quasi raddoppiato nella sua ampiezza fino a toccare e in alcuni casi ad abbattere arcate di pietre millenarie.

Da anni ci si riempie la bocca di un percorso storico che regali, al visitatore, l’inedita sensazione di vivere come dentro una macchina del tempo, in una sorta di “Piccola Roma”.
Si favoleggia da anni di un parco archeologico urbano finalizzato ad una più ampia fruizione pubblica degli straordinari tesori archeologici della città antica della Interamnia Praetiutorum, città parzialmente scoperta, molto saccheggiata ma che serba nel suo cuore pulsante gran parte delle sue autentiche strutture.

È chiaro a tutti che i palazzi sarebbero da abbattere. Chissà cosa uscirebbe ancora fuori dal sottoterra durante i lavori?

Se non avesse ragionato in questi termini lo storico e archeologo teramano, Francesco Savini nel lontano 1902, oggi non avremmo questa grande porzione di monumento storico con il suo fantastico fronte scena, i 24 pilastri con le arcate sovrapposte in opera quadrata di arenaria, numerosi muri radiali di sostegno e piccole scale di accesso alle gradinate.

Se Teramo prendesse a esempio la capitale d’Italia, Roma, che negli anni trenta iniziò un cammino di estrazione di quello che un tempo era la magnifica area dei Fori Imperiali, oggi la città sarebbe meno povera e più ambita da chi viene in Abruzzo.

Opportunismo, incuria, improvvisazione, indifferenza, imbrogli, speculazioni affaristiche, abbiamo visto di tutto nella storia recente del Teatro Romano e dei palazzi centenari che lo coronano.
Tutto questo continua coerentemente in località Ponte Messato della Cona dove, sul percorso archeologico della cosiddetta antica “via Appia teramana”, hanno costruito palazzine, sotterrando irrimediabilmente la
storia e soffocandola di cemento armato!

Tant'è!
Nessuno può negare che la Regione Abruzzo, la Provincia di Teramo, la Sopraintendenza alle Belle Arti, il Ministero dei Beni Culturali e perfino il Comune, si siano mostrati negli anni inadeguati a gestire un problema d’immagine di enormi proporzioni.
Di questi esempi negativi l’Abruzzo è pieno!

Si pensi all'attuale abbandono al suo destino dell’Aquila, la mancata valorizzazione di aree pregiate per la storia, penso al borgo medievale di Castelbasso, vicino a noi oppure la mancata riqualificazione di grandi conventi come quello di San Giovanni di Capestrano o delle numerose abbazie cistercensi, l’abbandono di antichi conventi, i numerosi ponti romani nel degrado assoluto.

Purtroppo la Storia, quella con la S maiuscola viene violentata giorno per giorno!

La speranza è che il progetto finanziato dalla Fondazione Tercas, fra le istituzioni più interessate al recupero, presentato alla Regione Abruzzo, prima o poi venga almeno preso in considerazione!

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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domenica 21 dicembre 2014

Il gioiello d'Abruzzo: Santo Stefano da Sessanio

Il borgo medievale di Santo Stefano di Sessanio è, tra i monumenti dell’uomo, forse il più suggestivo dell’intero Parco Nazionale del Gran Sasso e monti della Laga.

Il piccolo paesino, che vanta anche esempi rinascimentali, situato alle pendici del versante meridionale del massiccio più alto degli Appennini, si trova a un’altezza di 1251 metri sul livello del mare.

Parliamo di un abitato costruito prevalentemente in pietra bianca calcarea locale, brunita e resa opaca dal tempo.

I tetti, con i suoi larghi coppi, offrono al visitatore un’armonica visione d’insieme, in parte rovinata dal disastroso sisma del 2009 che ha raso al suolo, irrimediabilmente, la singolare e caratteristica torre medicea del Trecento, che dava un tocco ulteriore di classe e arte di decoro architettonico da cui partiva l’abitato strutturato in ellissi concentriche e altrettante scalinate ripide.

Il nome del paese “di Sessanio”, risale al latino Sextantia, appellativo con cui veniva chiamato il piccolo pagus romano che un tempo era ubicato nei pressi dell’attuale chiesa dedicata al Protomartire Stefano, ai piedi di un colle su cui sorse, in seguito, il villaggio. Sextantia era a sei chilometri dall'importante "pagus" dedicato a San Marco tra Castel del Monte e Calascio.

Da non perdere la passeggiata a piedi lungo le strette vie e le erte gradinate, i tortuosi selciati che si insinuano tra le case e i percorsi inediti ricavati sotto le case e creati per difendersi dai rigori dell’inverno e dalle sue intemperie.
Del dominio della famosa famiglia dei Medici rimangono bei loggiati dalle linee pure ed eleganti, piccoli portali disposti ad arco con formelle fiorite e singolari bifore, gioie per gli occhi di esperti dell’architettura.

Lo stemma che ancora oggi campeggia sulla porta d’ingresso a sud est della Signoria di Firenze, testimonia i granelli di civiltà raffinata, di cui secoli fa godette questo minuscolo borgo pastorale, tutto da vivere con massima attenzione.

Solo riservando la giusta concentrazione alla visita, il turista potrà scoprire piccoli edifici, case fortificate con palazzotti gentilizi del Quattrocento, balconi in pietra da cui godere spettacoli di paesaggio.

In alcuni scorci è possibile abbracciare con lo sguardo le valli del Tirino e dell' Aterno, fino a scoprire pezzi del massiccio della Majella e la catena montuosa del Sirente, nel territorio di Avezzano.

Da non perdere la chiesa di Santo Stefano, edificata nel quattordicesimo secolo in unica aula a cinque campate.
Se qualcuno dovesse chiedersi il perché della potenza medicea nel borgo di montagna e così lontano dalla Toscana, deve approfondire la storia della Baronia di Carapelle, un insieme di più paesi, quali Castel del Monte, Calascio, Castelvecchio Calvisio e Carapelle Calvisio, oltre al borgo di Santo Stefano.

Era la Baronia appartenente alla famiglia toscana dei Piccolomini, già Conti di Celano e proprietari della Rocca di Calascio.

Il paese di Santo Stefano era importante centro di avvistamento dei territori confinanti.

Nel 1579 Costanza, figlia unica di Innico Piccolomini, cedette la proprietà a Francesco dei Medici, Granduca di Toscana.
Questi fu quasi deriso per aver preso possesso di un luogo definito “ammorbato dalla puzza delle capre e delle pecore”.
Tutti dovettero ricredersi quando, giunsero in paese e scoprirono un abitato bellissimo, creato intorno a una natura sontuosa.

Sotto il diretto controllo della famiglia toscana, Santo Stefano raggiunse il massimo splendore grazie anche a un artigianato eccellente di fabbricazione lana carfagna venduta in tutto il mondo dai mercanti.
Questi, con le loro carovane, attraversavano le aride distese di Campo Imperatore, piccolo Tibet d’Italia, durante le stagioni più clementi per portare il prodotto ovunque, anche in mare attraverso i porti del Mediterraneo.

Anche i prodotti della terra ebbero grande impulso e ancora oggi rappresentano al meglio l’economia locale:
Lenticchie biologiche e di alta qualità, oggi rinomato prodotto DOP dalle piccole dimensioni con crosta rugosa, da servire con quadratini di pane fritto in olio di oliva o con patate e erbette locali;
le mandorle, raccolte nei mandorleti in zona, di gran gusto e adatte alla creazione di succhi;
La cicerchia, antichissimo legume di alta digeribilità, prodotto lì dove la terra appare più arida e crepata;

La carne degli agnelli di ottima qualità allevati nella piana di Campo Imperatore che nella tradizione locale viene cotta in pentola con formaggio e uova.

Lo spopolamento dell’antico villaggio , dopo l’Unità d’Italia, e in seguito al fenomeno della emigrazione accresciutosi dopo la Grande Guerra, è certo stato un fatto negativo, ma in parte ha contribuito alla tutela dello straordinario patrimonio storico e architettonico del paese, in gran parte, riconvertito anni fa a mirabile e accogliente “Albergo Diffuso”.

Oggi Santo Stefano è nella particolare cerchia dei borghi più belli d’Italia.

Arrivare:
Da Nord
Dall'autostrada A14 seguire la direzione Ancona, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, proseguire in direzione L'Aquila, imboccare l'autostrada A 24, uscire a L'Aquila Est, prendere la SS 17 in direzione di Pescara, svoltare in direzione di Santo Stefano di Sessanio.
Da Sud
Dall'autostrada A14 seguire la direzione Pescara, continuare in direzione Roma, prendere l'autostrada A 25, uscire a Bussi/Popoli, seguire le indicazioni per L'Aquila, continuare sulla SS 5 e poi sulla SS 153 in direzione Navelli, prendere la SS 17 in direzione di L'Aquila e proseguire seguendo indicazioni per Santo Stefano di Sessanio.
Da L'Aquila
Percorrere la SS 17 in direzione di Pescara, proseguire fino alle indicazioni per Santo Stefano di Sessanio.

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sabato 20 dicembre 2014

Le incredibili polle delle Sorgenti del Pescara

Le Sorgenti del Pescara, ubicate nella parte settentrionale della valle Peligna, non lontano dalla città termale di Popoli e delle ultime propaggini del Gran Sasso, sono una delle zone umide più importanti d’Abruzzo.

Il cuore della Riserva naturale è costituito da un vasto specchio d’acqua cristallina creato da una incredibile concentrazione di numerose sorgenti e polle d’acqua.
Un vero tesoro naturale per l’intera valle.

Il fiume Pescara raccoglie piccoli rivoli e deboli sorgenti di piccoli torrenti di montagna. Sono ruscelli e fossati che attraversano il territorio di Roccamorice, Abateggio e Lettomanoppello e che, a pochi chilometri da Scafa, nella valle sotto Caramanico, prima di unirsi al Pescara, forma le acque sulfuree del Lavino.
Qui esiste un’altra area protetta, un Parco Territoriale attrezzato con resti di archeologia artigianale di mulini ad acqua.

Le “polle” testimoniano la presenza mirabile delle numerose risorgive ubicate sotto lo specchio d’acqua in un tragitto sotterraneo che dalla montagna arriva a Popoli in quantità di circa 7000 litri al secondo.
Questo turbinare di acqua dal Gran Sasso e dalla vicina Majella sud occidentale, crea una ricchezza che, ancora oggi, produce i suoi frutti in campo industriale e agricolo.

La zona protetta è piccola ma ha molte particolarità naturalistiche che si coniugano mirabilmente con l’azione antropica dell’uomo, che lungo il corso del fiume ha creato canali, barriere e antichi tratturi.

Il parco è dotato di zona picnic e di luoghi comodi dove scoprire in tranquillità la vegetazione fatta di salici, pioppi neri monumentali, frassini e boscaglia cedua bassa di macchia mediterranea.

Risalendo la parte alta della Riserva, da dove c'è uno splendido panorama su Popoli, il Catello Cantelmo e le gole, si scoprono anche begli esemplari di Pino d'Aleppo, Lecci e Roverelle, tra macchie di ginestre e fiori selvatici.
Esistono anche molti alberi da frutta come i Ciliegi e i Peri selvatici.

Il parco ha attrezzato anche un'area didattica dedicata alle scuole e ai progetti ambientali per i giovani.

Nell'area protetta nidificano splendidi Aironi Cenerini. Tra i volatili si annoverano lo Scricchiolo, la Capinera, il MerTrlo, il Pettirosso, la Canapiglia, l’Alzavola e numerose specie di Rondini Reali.
I mammiferi sono rappresentati dai Ricci, le Faine. Le Donnole, i Tassi e le Volpi.

Numerosissime le specie di insetti presenti nella zona.
Nello stagno vivono le libellule e anfibi vari tra cui il Rospo Reale.

I due parchi Sorgenti del Pescara e del Lavino si raggiungono attraverso la A25 Pescara Roma, uscita Alanno Scafa poi verso Decontra, circa 4 chilometri o uscita Popoli.

Per saperne di più ... Riserva delle Sorgenti del Pescara

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domenica 14 dicembre 2014

Il Santuario Regio del santo di Capestrano

Tra un sipario e l’altro di nubi compare qui e là una delle tante propaggini del Gran Sasso meno conosciuto lì dove le pietre appese a precipizi sembrano voler parlare.

Mi inerpico per la strada meno frequentata che dalla statale porta al paese.



Su di una curva presa larga, sfioro un muretto sopra il quale si trova una piccola edicola con l’immancabile Madonnina.

Mi fermo davanti al cimitero che stranamente trovo chiuso.
Dalla inferriata noto un pezzo di pietra scalpellata con delle parole incise che sbucano quasi come un fiore antico.
Mi piace entrare nei cimiteri e forse questo vi parrà strano.
Trovo che in questi luoghi ci sia pace e serenità.

Sto andando a scoprire un convento in Abruzzo che nasconde una storia millenaria, edificato in un punto in cui sorgeva un antico castello di proprietà del sovrano longobardo Desiderio e che al suo interno custodiva rari tesori, oggi disseminati in musei regionali.

Sto parlando del santuario edificato da San Giovanni da Capestrano nell'omonimo paese in provincia dell’Aquila, due chilometri dal centro del vecchio borgo.

L’uomo lo trovo, inaspettatamente, seduto su di uno sgabello proprio davanti al portone d’ingresso.
Lavora, nel silenzio del posto, con stecche di canne selezionate per fabbricare canestri di giunco. Evidentemente si procura il materiale scendendo sotto il fiume Tirino, non lontano da Capestrano.

Mi piace pensare, guardando a questa scena d’altri tempi che questo signore abbia ingaggiato una sorta di battaglia contro la plastica e i suoi contenitori, a vantaggio di utensili in vimini.

Proprio qui, secoli fa, si svolgeva uno dei più grandi mercati della regione.
Il vecchio, stimolato a parlare, rivela di essere originario di San Vincenzo a Valle Roveto e capisco da dove gli viene la perizia con cui le sue mani producono canestri.

Il paese ubicato sulla sponda destra del fiume Liri, un tempo concentrava il maggior numero di fabbricanti di questi contenitori.
Ora si trova, per varie vicissitudini in questo luogo, dopo aver combattuto nella seconda guerra mondiale a Ortona, la “Stalingrado d’Abruzzo”, punto focale nella linea maginot di battaglia che dal mare portava in montagna, attraverso la valle del Sangro.

Mi racconta con soddisfazione, dato che acquisto un suo cestino, che era stato abbandonato, dopo la morte della moglie, dal figlio emigrato in Australia, dall'altra parte del mondo a 15.000 chilometri di distanza, la terra dei canguri dove il lavoro c’è, eccome.
Il figlio non torna da anni.

Ci salutiamo non prima che il vecchio mi regali la sua stilla di saggezza:
“La gente come noi - mi dice - che non rimane attaccata alla sua terra, fa la fine delle api impazzite che non ritrovano la strada di casa”.

Torno ad occuparmi del convento di Capestrano.

Nel 1447 il santo francescano volle far costruire questo luogo per i frati dell’Osservanza sotto il titolo di San Francesco d’Assisi, ben più grande di quello presente già da anni prima nel vicino paese di Ofena.

Quando San Giovanni morì nei pressi di Belgrado, nell'allora Jugoslavia, per espressa volontà del religioso, le sue spoglie furono riportate proprio a Capestrano e custodite gelosamente nella piccola cappella adiacente il salone dove, nello stesso anno la nobildonna contessa Cobella, fece realizzare la grande biblioteca dove custodire il grande numero di libri di suo possesso.

Quello che maggiormente attrae il visitatore è il bel chiostro a due ordini di colonne, presente sul fianco sinistro della chiesa dall'inizio del seicento.
Le colonne inferiori sostengono la volta del chiostro, mentre quelle superiori formano una sorta di corridoio, costeggiato dalle antiche cellette dei frati, donando un bel colpo d’insieme alla struttura. Intorno al chiostro ci sono dipinti che raccontano la storia di San Giovanni.

Da non perdere la monumentale scalinata che porta alla biblioteca di valore immenso dove sono custoditi scritti originali del santo.

Il luogo santo di Capestrano fu insignito dell’ambito titolo di Reale Convento nel seicento, a opera di Carlo II, re di Spagna, reggente del Regno di Napoli che volle, col suo decreto, dare lustro a questo luogo che era meta di viaggiatori, pellegrini in numero prodigioso per quei tempi.

Fuori la grande struttura, periodicamente si svolgevano grandi fiere alle quali accorrevano, numerosi, mercanti in cerca di affari.
Nel settecento, il convento divenne ancora più grande con l’aggiunta di altri fabbricati annessi.
Basta osservare la grande scalinata interna di raccordo, già menzionata, che venne realizzata nel 1750 per unire le due anime del complesso.

Nel corso dei secoli la chiesa ha avuto vari rifacimenti, il cui primo fu realizzato all'atto di beatificazione di San Giovanni, nel 1515.
Interventi di una certa consistenza si sono avuti nel 1625 e nel 1669, in occasione dell’inaugurazione della cappella del santo, la cui canonizzazione risale al 1690.

Un bell'altare ligneo, all'interno della chiesa, fu sostituito da uno in marmo, a lato del quale era custodito un insigne busto argenteo raffigurante Giovanni, realizzato nel 1740.
L’ultimo restauro è datato 1925, quando la chiesa venne decorata in gran parte dall'artista abruzzese Padre Colombo Cordeschi da Lucoli, sempre nell'aquilano.

Oggi i francescani hanno quasi abbandonato per mancanza di forze, la struttura che è gestita direttamente dal comune.
Le visite si possono fare grazie a due frati che risiedono ancora all'interno.

Ora non mi resta altro che scoprire le bellezze del castello.

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Si raggiunge Capestrano attraverso la A25, uscita Popoli Bussi, proseguendo sulla statale 159, direzione L’Aquila.
Per informazioni 086295234

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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sabato 13 dicembre 2014

Fossa: il paese senza vita!

Un uomo di alta statura mi viene incontro salendo dal fosso sul ciglio della strada interrotta dai crolli causati nell'aprile 2009 dal terribile sisma aquilano.
Negli occhi di tutti gli amanti dell’arte c’è ancora il disastro di Santa Maria di Collemaggio all'Aquila, il cratere all'interno della chiesa delle Anime Sante, i campanili di centinaia di paesi sgretolati.
Il sisma del 2009 ha lasciato tramortita l’Abruzzo.

Il terremoto ha diviso la vita tra un “prima” e un “dopo”, tra identità sbriciolate e facciate polverizzate, tra povera gente infagottata sullo sfondo di tende blu e memorie dei luoghi da porre in salvo.

Questo del 2014 è invece un aprile calmo, canuto di verde e di fiori lungo la vallata dell’Aterno, rimasta disastrata dopo l'evento indimenticabile.
La luce e i paesaggi del giorno rendono ancor più tetro un paese distrutto da una forza inaudita sprigionatasi dalle viscere della terra.

L’uomo è decisamente sorpreso dalla mia Nikon.

Non gli è chiaro cosa ci sia da fotografare in questo borgo ridotto a ghost town, dove i tetti sono crollati, i muri sono a monconi, le case intere imbracate alla ben meglio e gli unici esseri viventi, padroni del territorio, sono cani e gatti randagi.

Poi mi racconta come la vita si sia effettivamente fermata al 9 aprile 2009 in gran parte dei paesi aquilani.

Sull'uscio di casa troviamo la moglie Ernestina.
La donna zoppica e la sua storia è splendida.
Un giorno durante una gita nel bosco inciampò in un tronco sul sentiero e si fece male.
Tutti a dire: “ti devi disinfettare, ti portiamo a valle attaccata alle nostre spalle!”
Ma lei a ripetere che non era successo nulla.
Tornati a casa tutti si accorsero che la gamba era scassata.
Da quel giorno porta il bastone.
La vallata sotto è un paesaggio lunare, un posto magico dove anche i sassi hanno l’anima.

Mi aggiro per il paese e ovunque si respira desolazione e morte.

Pensare che avevo visitato Fossa l’estate precedente la maledetta notte di aprile.

L’avevo trovato delizioso, uno degli abitati più belli dell’aquilano.


Ero andato per scoprire la chiesa di Santa Maria ad Cryptas, splendido monumento di arte cistercense.
Oggi è interdetta al pubblico.

L’antico campanile che gravitava pericolosamente sulla volta a crociera, è stato ingabbiato in una grande struttura metallica, alzato con una gru e messo a terra.
Gli interni del tempio, mirabilmente affrescati nella loro interezza da preziosi dipinti di pittori medioevali, sono stati messi in sicurezza e il soffitto ligneo ha retto all'urto del sisma.
Laddove alcuni affreschi sono stati intaccati, la Sovrintendenza ai Beni Culturali d’Abruzzo, ha già fatto recuperare i frammenti per ricomporre al più presto gli antichi dipinti.

L’edificio è stato costruito nella seconda metà del Duecento con una struttura architettonica semplice ma ben fatta, vista la resistenza al sisma e nella sua unica navata all'interno, toglie il fiato al visitatore per la bellezza delle pitture.


Le opere raccontano nei due cicli, storie del Vecchio Testamento concentrate nella “Genesi” e nel “Giudizio Universale del Cristo Giudice tra gli Angeli”, che riporta terribilmente alla potenza distruttiva del terremoto e gli episodi salienti della vita del Cristo con gli stupendi colori grigi gonfi di tristezza della “Flagellazione” e della “Crocifissione”.
Intaccato, per fortuna lievemente, il ciclo dei mesi del “Calendario”, opera simile a quella dipinta magistralmente, nell'Oratorio del Pellegrino di Bominaco.

Si spera che tornerà presto a regalare ancora i suoi significati allegorici del lavoro dei campi benedetto da Dio.
Nessun danno per il dipinto raffigurante l’Inferno, icona involontaria del baratro che si è aperto nella vita degli aquilani.
I demoni torturanti con San Michele Arcangelo dedito alla pesa delle anime, sono ancora lì.
La “Risurrezione delle anime” raffigurata con i morti che escono dalle proprie tombe, può servire di augurio per una pronta rinascita del territorio.
Questo edificio offrirà ancora, si spera per secoli, una preziosa chiave di lettura della vita e della spiritualità del popolo aquilano e abruzzese in genere.

D'altronde la storia della nostra bellissima e sfortunata regione è legata a doppio filo alla religione cristiana e al monachesimo occidentale che ha dato un’impronta indelebile alla sobrietà dello stile di vita dei suoi abitanti.

Un tesoro sorprendente incastonato in paesaggi indimenticabili che speriamo possano tornare presto a incantare i turisti di tutto il mondo.

L’antico villaggio di Fossa aveva nobili discendenze storiche.
Risaliva al tempo della Prefettura romana “AVEIA VESTINORUM”, che presto divenne cristiana ed ebbe i suoi primi martiri nel levita Massimo e nella giovane vergine Giusta.

In seguito, Fossa fu sede vescovile, abitazione di Gaudenzio, uomo di fiducia del papa Ilaro nel primo Concilio Romano della storia.

Anche nel medioevo il borgo fu un grande insediamento.

I nuclei degli abitati di pianura, ben presto si asserragliarono alle pendici del monte Circolo nel complesso dell’Ocre, per difendersi dalle incursioni piratesche dei manipoli di manigoldi che imperversavano ovunque.

Nel 1221, dopo la distruzione di Celano, Federico II deportò in questo paese un considerevole numero di soldati fatti prigionieri, raccogliendo l’invito di Gualtiero, allora conte di Ocre, personalità di spicco della corte di Federico.
Fossa poi entrò nella storia francescana nel 1480, quando l’antico monastero benedettino cistercense fu concesso ai frati Minori che vi dimorarono fin quando il terremoto del 2009 non fece crollare tetto e vite.
Il buon martire Cesidio Di Giacomantonio, oggi santo, che ebbe proprio a Fossa i natali, si gira probabilmente nella sua tomba a vedere come oggi sia ridotto il monastero dove da piccolo fece prima il chierichetto, poi il novizio per poi partire missionario consumatosi nel martirio in Cina.

In quella terra lontana, dove si agitavano forze esasperate nel nazionalismo che incitavano all’odio religioso, il giovane frate fu assalito dai famigerati “Boxers”, gli xenofobi inferociti.

Questi lo uccisero barbaramente a colpi di bastoni mentre cercava, nella cappella dell’Eucarestia, di salvare dalla profanazione le particole consacrate.

Il complesso che custodiva gelosamente i santi corpi del Beato Timoteo da Monticchio il contemplativo maestro dei novizi, di Ambrogio da Pizzoli che fu compagno di San Giovanni da Capestrano nella crociata contro i turchi, del Beato Placido da Roio e le reliquie del martire di Cristo Fra Cesidio, forse rimarrà senza storia per sempre.

Per giungere a Fossa: autostrada Teramo Roma, uscita L’Aquila Est direzione L’Aquila S.S. 5 bis per Avezzano

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domenica 7 dicembre 2014

La piccola "La Verna d'Abruzzo"

A pochi chilometri dall’Aquila dove l’Aterno disegna il suo corso più frastagliato, il piccolo centro montano di Fossa regalava attimi di spiritualità a chi desiderava visitare una sorta di “terra delle Beatitudini”, dato l’ingente numero di santi e beati cui la zona ha dato i natali nel corso dei secoli.


Ho usato il verbo al passato remoto non a caso e non per sbaglio.
Dopo il terremoto del 2009 Fossa è un paese fantasma.
Questo borgo piccolissimo sotto il monte Circolo, ai piedi del complesso montano dell’Ocre, con mirabili resti di storia millenaria fra palazzi medioevali e chiese stupende, oggi è abitato da cani e gatti randagi.

Non è più possibile scoprire un gioiello d’arte come Santa Maria ad Criptas, tempio mirabile del XII secolo, vera Cappella degli Scrovegni in Abruzzo con i suoi cicli pittorici ineguagliabili.

La piccola chiesa che si affaccia sulla valle a pochi metri dal centro storico, è chiusa, imbracata nelle mura e inaccessibile perché pericolante.

È rimasto ben poco del possente castello dei Conti d’Ocre, prodigio di architettura difensiva del 1300 e la grande necropoli preromanica che valeva l’appellativo di “Stonenhenge d’abruzzo”.
Tutto chiuso.

Non è più facile scorgere, nel suo contesto ambientale in cui madre natura fu prodiga, lo spettacolare convento francescano arroccato su di un masso roccioso gigantesco.
Un luogo dello spirito da tutti definito “La Verna d’Abruzzo”, in omaggio a uno dei posti più importanti del francescanesimo dove il santo di Assisi ebbe le stimmate.

La strada per salire al convento è ormai interdetta da quella maledetta notte di aprile 2009, per possibili crolli dal fianco della montagna.

Se v’inerpicaste lungo i tornanti sopra il paese, potreste avere l’impressione che la natura abbia lavorato, secoli prima, per poggiare Sant’Angelo in Ocre sul costone a nido d’aquila, sentinella del precipite e angusto vallone brullo e inospitale.

Si scopriva quasi d’improvviso dall'altopiano di Navelli da dove prendevi a salire alle pendici del monte Circolo per raggiungere un tempo che si era fermato nel tempo!

Oggi per fotografarlo sono dovuto salire a piedi la strada che dal piccolo borgo di San Panfilo d’Ocre porta su di una collina adiacente alla montagna.
Un tempo, prima del maledetto sisma, arrivando al convento si veniva rapiti da un senso di pace nel cuore.
Circondati dal cupo verde dei boschi, gli affanni, le ansie, sembravano fermarsi sotto la conca. Si respirava aria mistica.

Il convento sembrava una “stupa”, quei piccoli santuari indiani che contengono reliquie di qualche buddista santo.
I resti santi del Beato Timoteo di Monticchio e di Cesidio da Fossa, custoditi nella piccola chiesa del convento, erano presenze inquietanti ma, nello stesso tempo, consolanti.

Un luogo sacro stupendo, quindi, antica dimora di contemplativi, con affreschi lungo i muri abbandonati al tempo e una misteriosissima parete a precipizio.
Tutto intorno, massi, verde e caverne dove si dice siano vissuti diversi eremiti.

Oggi tutto questo non esiste più!
Il tetto del convento è crollato, le erbacce colonizzano gli antichi e sacri muri.
Il paese sotto, dove le donne usavano ancora portare otri di terracotta o di rame per prendere l’acqua buona di montagna dalla fonte centrale, è un cumulo di case vuote, monconi di pietre e mura imbracate.

Dentro queste mura, dopo aver vissuto l’infanzia a Fossa, si formò alla santità il Beato, oggi santo, Cesidio Giacomantonio, martire dell’Eucarestia che venne ucciso in Cina durante il periodo della Rivoluzione dei Boxer per non aver voluto rinnegare il nostro Dio.
Ricordo che all'ingresso il visitatore era accolto da un artistico Tau di legno.

L’ultima lettera dell’alfabeto ebraico era il segno più caro per San Francesco d’Assisi, il suo sigillo, segno rivelatore di una convinzione spirituale profonda, che solo nella croce di Cristo può esserci salvezza per l’uomo.
Nel convento un frate dalla barba fluente raccontava a chi arrivava, la tradizione che fa risalire la fondazione del monastero ai potenti Conti D’Ocre.

Per giungere a Fossa e San Panfilo d'Ocre: autostrada Teramo Roma, uscita L’Aquila Est direzione L’Aquila S.S. 5 bis per Avezzano

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sabato 6 dicembre 2014

Le vacche riflessive sulla strada per Santo Stefano

“Dio ha fatto un mondo per l’uomo viatore, questo nostro; ha fatto un mondo per l’uomo beato, il Paradiso! Ha fatto un mondo per Sé e gli ha dato il nome di Maria”. (Il segreto di Maria,19)

Ci guardano indifferenti, nient’affatto preoccupate, anzi a pensarci bene, sembrano quasi divertite nello scrutare due tizi disastrati da giorni di cammino.
Le vacche, si dice, siano molto riflessive. Ruminando, meditano.
Ma come accade che un pensiero per giunta bislacco, faccia il giro del mondo e sia condiviso da tutti?

Come può una sciocchezza radicarsi nei nostri neuroni e diventare certezza?
Guardo negli occhi uno di questi bestioni.
Non mi pare affatto che stia pensando qualcosa da dietro occhi persi nel vuoto.
Davanti al laghetto carsico, decine e decine di capi di bestiame sono lì, intenti a far toilette.
Siamo arrivati a questo luogo idilliaco, partendo dal sentiero numero dieci che, dall’albergo di Campo Imperatore, ci consentirà dopo una vita di cammino, quasi quattro ore di marcia, di arrivare al borgo di Santo Stefano di Sessanio, uno dei più belli d’Italia.

La cresta sommitale di spettacolari valloni ci ha consentito di aprire ai nostri occhi, l’immenso panorama che abbraccia tutta la catena montuosa del Gran Sasso, la vallata del fiume Aterno, i massicci della Majella e del Sirente.

Attraversando le pendici meridionali del monte Scindarella, abbiamo raggiunto la sella a 1800 metri, per poi scoprire uno dei tanti scempi dell’uomo: l’insediamento turistico Campo Neruda, nella fossa di Paganica.

Negli anni ’70 questa struttura mai terminata, doveva essere di supporto agli impianti sciistici del versante settentrionale del Monte Cristo.
Torniamo a marciare.
Dopo tanto freddo, oggi il caldo pare quasi opprimente, nonostante l’altitudine.
Ecco un altro specchio d’acqua, dopo prati e pendici ondulate, quello di Barisciano, ecco un secondo, di Passaneta.
Le alture prendono contorni talora brulli e steppici.
Pensare che in un inverno in cui ci trovammo da queste parti nel bel mezzo di un gelido vento quasi siberiano, queste ondulazioni erano ricoperte di neve compressa che aderiva come candida corazza alle placche rocciose.

Le asperità sembravano festoni spugnosi foggiati dal vento freddo, tra muraglie bianche.
Oggi il sole, invece, dona una rassicurante tranquillità.
Il monte Mesola davanti a noi custodisce i suggestivi resti di un grande insediamento religioso: Santa Maria di Paganica, del XIII secolo.
Ecco i “cesarini”, urla Massimo.

È questo, mi spiega, il termine usato per indicare gli edifici in stato di rudere.
Si ergono isolati e imponenti su di un costone a 1600 metri di altezza.
Era una grancia dell’abbazia cistercense di Santo Spirito in Ocre, a sua volta dipendente da quella di Santa Maria di Casanova.
I monconi di pietra appaiono quasi come una fortificazione militare, uno dei tanti baluardi difensivi eretti dai Baroni di Carapelle per difendersi dai malefici saraceni.
Arrivando, l’immaginazione fa comparire ai miei occhi, visioni antiche di monaci, pecore, zampogne, spinaci selvatici, villaggi medievali di pietre sfumate dal tempo e dal lavoro millenario dell’uomo.
Era questa una delle vie transumanti per eccellenza per giungere all’Adriatico.
Non il più importante, ma un ramo che si ricollegava a quello principe di San Pio delle Camere che permetteva in una quindicina di giorni di dura marcia, di arrivare a Foggia.
Qui c’era la Dogana della Mena delle Pecore, il casello daziario per il pagamento dell’esoso tributo sul pascolo.

Certo, oggi la transumanza
orizzontale, mi dice Massimo, non esiste più!
È più che mai vero.
Per produrre il famoso Canestrato di Castel del Monte, il classico pecorino realizzato con latte di pecore vaganti nella piana di Campo Imperatore, si utilizzano prati vicini di bassa altitudine.

È un vantaggio enorme perché gli armenti hanno l’indubbio privilegio di vivere liberi al pascolo per l’intero anno, brucando erba e fiori spontanei di cui il Gran Sasso è ricco.
Dovete sapere che sono state censite almeno trecento essenze foraggiere e, per darvi un’idea, nelle Alpi sono poco meno di cinquanta.
Il commercio in questi luoghi era gestito dai Cistercensi, questo potente ordine monastico, nato in Francia nell’XI secolo.
Qui avevano costruito, lungo il percorso, una serie di masserie- ricoveri per le greggi e facevano pagare per far riparare le bestie e i conduttori.
Gli Aragonesi, ho letto in qualche parte, avevano reso obbligatoria la transumanza per chi possedeva più di venti pecore.

Costeggiamo il versante settentrionale della montagna, arrivando alla sella che divide il Mesola dal monte Cecco d’Antonio, utilizzando tracce di sentiero.
Incontriamo anche la “pajare”, il piccolo complesso di capanne in pietra a secco dei pastori, costruzione mutuata dai famosi Trulli pugliesi di Alberobello, nata come
idea circa trecento anni fa.

Incontriamo sul cammino un tizio.
L’uomo porta con se radici di genepì.
Mi guarda con aria poco tranquilla.
Non sa se la figura che gli si para davanti è quella di un guardia boschi in incognito.
Il maledetto sa che quelle piantine che ha sradicato fino alle radici sono specie protetta e che, carpirli dal terreno non può far altro che provocare danni gravissimi agli ambienti in cui vivono con effetti irreversibili sull’intero eco sistema montano. In gergo scientifico si tratta di “Artemisia Petrosa”.
Le infiorescenze sono chiamate anche “capolini”.
Il maledetto ha intenzione di lasciare essiccare al sole il genepì per poi porlo in infusione nell’alcool allo scopo di ottenere il noto liquore digestivo tanto apprezzato per il dopo pasto.
Deve aver capito la mia insofferenza, allunga il passo e in breve scompare ai miei occhi.

Da secoli questa pianta officinale è servita a fini alimentari, terapeutici, addirittura magici, ma il rispetto che le si deve non l’ha mai ottenuto.
Siamo al fontanile delle Condole.

Questo nome lo si dà a piccole strutture pastorali costruite con tecniche del mondo benedettino e cistercense.

Tra resti di questi antichi ricoveri,
imbocchiamo una carrareccia, dirigendoci verso sud nella piccola valle Traetta e poi al valico del monte Cappellone.
Attraverso la sottostante conca, arriviamo alla chiesa della Madonna del Lago, nei pressi di Santo Stefano da Sessanio.

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domenica 30 novembre 2014

Bella la vita a Mutignano

Il borgo di Mutignano è adagiato tra colline spartiacque di Atri e di Pineto su di un crinale molto panoramico.
Al visitatore appare come una bella donna distesa, languida e attraente.
 Non seduce particolarmente per la sua architettura ma è piacevole l’atmosfera bucolica del paesaggio.

L’occhio è rapito e spazia tra rigogliosi pergolati di viti fin oltre lo sperone che ospita Silvi Alta.
Più in là si apprezzano i rilievi tondeggianti della Majella e sotto, Città Sant'Angelo fino a Chieti.
Certo, da quando, anni fa, dei malviventi trafugarono la tavola artistica di Papa Silvestro nella parrocchiale, il paese ha di certo un’attrattiva minore.

La copia che campeggia nel presbiterio della chiesa a unica navata, pur dignitosa, non ha chiaramente l’identico fascino.
I turisti salivano fin quassù proprio per vivere intensamente il capolavoro del celebre artista rinascimentale, quell'Andrea De Litio sommo autore di parte del ciclo d’affreschi che impreziosisce l’abside del bellissimo
Duomo di Atri.

Proprio nella città ducale a pochi tornanti dal paesino, le opere del Maestro, tra i maggiori pittori del ‘400 abruzzese, regalano popolarità e prestigio alla nostra provincia con capolavori immortali a cominciare dalla “Strage degli innocenti” e al “Commiato della Madonna degli Apostoli”.

Questa chiesa dedicata a San Silvestro ha una particolarità che intriga: il suo ingresso è posto sotto il campanile come accade spesso nelle moschee arabe.
Dentro è custodito anche un bell'esempio di croce del prolifico artista Nicola da Guardiagrele, uno dei principali maestri orafi del ‘400, scultore fra l’altro, dell’eccelsa croce processionale esposta nel museo della basilica romana di San Giovanni in Laterano.
La custode mi conduce all'interno.
Davanti agli occhi c’è la grande pala a trittico di legno dipinto, suddivisa in vari scomparti.

Al centro si ammira San Silvestro Papa in posa benedicente, con la mano destra in alto e la sinistra impegnata a sorreggere una croce astile.
Ai lati della tavola centrale gli episodi salienti della vita dell’uomo santo: il battesimo di Costantino nel momento in cui abbraccia il Cristianesimo, la guarigione miracolosa dalla lebbra, San Silvestro che discute animosamente con i Rabbini sulle verità della Fede e due singolari miracoli che servono a conferire autorità al pontefice da parte di Dio, il toro ucciso e risuscitato e il dragone reso innocuo dalle mani tese del santo.

Fuori dalla chiesa la piccola piazza alle undici del mattino di colpo si è animata: ragazzini intenti a giocare con una palla, donne con borse della spesa.
Lungo il corso, si trova l’antica chiesa di S. Antonio, oggi auditorium, bellissimo esempio di commistione tra vari stili di epoche diverse, è come di consueto inaccessibile.
E’ sempre chiusa, non c’è verso di entrarvi.

Un simpatico signore dalla pancia prominente afferma di avere le chiavi ma dice che senza ordine del parroco non fa entrare nessuno.

Evidentemente il paese è ancora sotto choc per i furti subiti anni fa dalla Parrocchiale.
Scomparvero a causa di ignoti anche un prezioso calice antico.

Man mano che attraverso l’arteria principale del paese è come essere trasportati in altre epoche, fatte anche di genuinità e semplicità.
Ai lati della via principale c’è una teoria di minuscole rue alcune arricchite da antichi sporti tutti dipinti con opere di pittori.

In alcune aperture verso la valle sottostante s’intravede l’Adriatico rosetano.

Intorno al paese le colline sono
immerse nel silenzio della campagna.
Mutignano era il borgo felice della vicina Hatria Picena, l’odierna città ducale che aveva il suo sbocco al mare nei pressi della Torre del Cerrano di Pineto.
Il piccolo villaggio, nato per volontà di una colonia di slavi capitati qui dopo essere scampati miracolosamente a una tempesta in mare, ha subito le dominazioni di Goti, Longobardi fino al potentato della famiglia degli Acquaviva, padroni incontrastati di mezza provincia teramana.
Quadretti idilliaci si dipanano davanti agli occhi: la donna intenta all'uncinetto sulla soglia di casa, il vecchio che ci scruta con la testa a metà fuori dall'uscio, le grosse statue un po’ kitch di due innamorati su di un balcone, intenti a guardare verso l’infinito, i tanti muri affrescati da dipinti che paiono scimmiottare la vicina “Casoli Pinta”.
Tutto offre belle sensazioni visive.

Il paese recentemente è stato oggetto di un bel progetto di recupero.
L’olfatto è invece rapito dal persistente profumo delle crostate appena sfornate dal giovane panettiere all'ingresso del corso.
Il ristorante al centro del paese espone il cartello che ricorda la specialità della pasta alla mugnaia.

La fame si fa sentire.
 La passeggiata termina nel parco di Castellaro, minuscolo polmone verde del borgo, lì dove insiste la primitiva parrocchiale dedicata alla Santissima Trinità.
Tornando in macchina, nell'altra parte del paese, un po’ fuori dal’abitato, è interessante buttare uno sguardo ai ruderi di Santa Maria della Consolazione a forma di croce greca del 1408, data testimoniata da una lapide in latino.
Occorrerebbe un intervento della Soprintendenza alle Belle Arti.


Come arrivare
A24/A25/A14 RM-PE uscita Pescara Nord/ proseguire in direzione Montesilvano Marina/ Pineto
da Napoli: A1 NA-RM uscita Caianello/ seguire indicazioni per Castel di Sangro/ Roccaraso/ Sulmona/ A25 direzione Pescara/ A14 uscita Pescara Nord/ proseguire in direzione Montesilvano Marina/ Pineto

 Informazioni = Municipio tel. 085 94971

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sabato 29 novembre 2014

La strada della salvezza è tutta in salita

Davanti ai ventotto gradini in legno di quercia, sono tanti i fedeli che nelle ricorrenze cristiane più importanti chiedono, salendo faticosamente in ginocchio, il perdono dei peccati per raggiungere il Paradiso.

Accade ogni anno a Roma come a Gerusalemme.
Accade anche a Campli.

In questo borgo che al visitatore sembra solo un tranquillo paesino di campagna ai piedi dei monti Gemelli, c’è una delle poche Scale Sante al mondo, dove ottenere l’indulgenza plenaria.
In realtà l’antica “Campulum” è grande nella sua storia millenaria iniziata in epoca preromana, tanto da essere da più di tremila anni, crocevia di popoli e cultura.

Basti pensare ai meravigliosi reperti della necropoli italica di Campovalano, risalenti al primo millennio avanti Cristo, ai grandi pittori che qui hanno lasciato opere indimenticabili come Giacomo da Campli, Cola D’Amatrice, Giovanbattista Boncori e tanti altri, senza dimenticare le architetture dei palazzi, le cui mura narrano antichi splendori e celano capolavori del genio umano.

Sono architetture immortali, come la cattedrale di Santa Maria in Platea, la Porta Angioina, San Paolo, il Convento francescano di San Bernardino, il Palazzo Farnese del ‘500, il convento di Sant’Onofrio, la medioevale casa del farmacista e del dottore, il Museo archeologico e mille altri tesori.

Fu Papa Clemente XIV che attribuì il privilegio della Scala Santa alla città della famiglia dei Farnesi nel lontano 21 gennaio 1772, grazie ad un paziente lavoro diplomatico di un avvocato, Gian Palma Palma, priore della Confraternita delle Sante Stimmate di S. Francesco, alla quale fu attribuito il ruolo di custode del luogo santo.

L’avvocato cercava di accrescere la fama della sua città per far rifiorire gli affari e allontanare il pericolo di un decadimento ormai inevitabile.
I gradini che rendono la strada per la salvezza dell’anima in salita, sono un rito religioso di grande importanza, legato a una tradizione biblica, priva di fondamento storico.

Fu Gesù, scendendo e salendo dal pretorio di Pilato la grande scalinata di marmo, a consacrare le pietre col sangue santo che colava dalle ferite inferte dai romani.
La tradizione vuole che, anni dopo, la madre di Costantino, Sant’Elena colta da immensa pietà durante un pellegrinaggio in Terra Santa, s’impossessò del marmo sacro, portandolo a Roma e collocandolo in forma di scala, nel palazzo Lateranense.

Quella di Campli è una delle Scale Sante in migliore conservazione esistenti al mondo, ma è sicuramente la meno nota e la meno frequentata.

Eppure, accostandosi con devozione a questo gioiello di fede ci si sente penetrare dall’atmosfera ricca di suggestioni e attese.

Il soffio del vento che giunge dalla piccola vallata circostante, inculca il desiderio di riconciliazione con Dio.
La luce riflessa che gioca sui toni del bianco e del grigio, sembra soffocare i colori brillanti del verde e del torrente Siccagno.
Sul piccolo universo fermo di questo borgo d’arte, cala il silenzio dell’anima che attende il perdono.
I segni della civiltà di colpo arrivano attutiti, persi nelle strette vie del paese.
Nel salire in ginocchio e a capo chino pregando e chiedendo perdono dei misfatti compiuti, una moltitudine di piccoli teneri angeli dalle tele dei lati, accompagnano il cammino penitente delle ginocchia.

I sei dipinti, tre a destra e tre a sinistra che ornano questo piccolo capolavoro di arte religiosa, ci ricordano quanto ha sofferto il Cristo per salvare tutti noi che spesso rifiutiamo il suo estremo dono.
E’ il luogo del perdono, dove le mute pietre sanno comunque raccontare storie e sentimenti, entrando nella parte più intima del peccatore.

Un itinerario dello spirito, in un tempio dalla struttura semplice.

L’ultimo gradino porta davanti al “Sancta Sanctorum”.
Si prega in silenzio al cospetto di un dipinto che raffigura la deposizione del Nazareno, simbolo meraviglioso del dolore che Gesù ha voluto subire per la salvezza di ognuno di noi.
Il piccolo altare dietro la grata sembra essere lì per far poggiare il peso delle miserie, degli squallori umani.
Finalmente si è liberi dai propri peccati.
La seconda scalinata si scende in piedi tra gioiose tele che ricordano la Resurrezione del Cristo.

Una cultura millenaria raccontata da tanti storici.

Serafino Razzi, domenicano, religioso che ben incarnava l’eterna condizione dell’uomo orante “in cammino” verso Dio, nel 1575 intraprese un viaggio verso l’Abruzzo, toccando anche il borgo di Campli.
Il confine fra la “provincia Pretuziana” e la “Marca Fermana”, fra lo stato e il Regno Pontificio di Civitella del Tronto, dovette lasciare in lui un segno se è vero che, profondamente colpito dalla nobiltà che permeava quel piccolo e apparentemente insignificante paesino, esclamò in una sua lettera: “ o Campulum Pretuziano…
capolavoro a cielo aperto!”.

Anni prima, lo studioso Pacifico Massimi, vissuto nel XV secolo, scrisse in un testo latino che … ”sinché esisteranno le ripe di Campli, Castelnuovo e Nocella, io ne sarò sempre amante, mai sarò immemore di ciò che ho ricevuto né mi peserebbe ricambiarlo con il dono di mille vite”.


Il cieco di Adria, Luigi Grotto, pose Campli sopra le rovine della favolosa Castro.

Lo storico Orlando non fu dello stesso parere e sostenne che i fondatori del borgo furono dei fuoriusciti di Campiglio, sulla collina sopra la valle, che gettarono le fondamenta di un quartiere che divenne in seguito “ il Ricetto” forse per la presenza di ebrei.
Giovan Battista Pacichelli invece asserì che il nome Campli derivava da intra – campi e affermò che il borgo fu fondato dai proprietari di un castello vicino.
Origini discusse, tra cui l’ipotesi di un tenimento umbro che parla di un “municipium inter campi” da cui il nome della città.

Quel che è certo che Campli trasuda, in ogni sua pietra, cultura millenaria.
Lo gridano incessantemente i tanti ritrovamenti di ogni epoca e civiltà.
Il territorio camplese ha avuto fin dalla preistoria insediamenti propri, come ci testimoniano i resti risalenti all’età del bronzo, di un villaggio di allevatori e agricoltori del XIV, XIII secolo a.C. e i ritrovamenti nella Necropoli di Campovalano con tombe risalenti al II secolo a.C. I resti raccontano anche di una civiltà romanica evoluta.

Nella zona al margine nord ovest della necropoli, sotto l’altare della chiesa romanica di San Pietro in Campovalano, fu ritrovato un frammento di epigrafe, in lettere capitali con dedica a Giulio Cesare, resti con tutta probabilità di un piedistallo di statua innalzata per disposizione dell’ex “Lex Rufrena” del 44 a.C. in onore a Cesare divinizzato.

Nella stessa area esisteva una necropoli romana, da cui provengono frammenti del ”sarcofago di Aurelio Andronico”, ricco commerciante di marmi nel IV secolo avanti Cristo.
Nella frazione di Battaglia ai piedi delle due montagne gemelle, fu riportato alla luce un ripostiglio contenente una quarantina di monete d’argento, molto probabilmente tesaurizzate, databili dal 323 al II secolo a.C..

In epoca romana i vicoli di Campli furono attraversati da uomini illustri; la storia ricorda la presenza di Lenate, dottissimo schiavo di Pompeo e Tazio Lucio Rufo che, pur essendo di umili natali, pervenne ai più alti gradi della milizia romana, diventando il pupillo di Augusto.

Nessuna mano scellerata è riuscita, nei secoli, a strappare l’infinito fascino che Campli sa regalare.

È possibile raggiungere Campli tramite l'autostrada Adriatica (A14) uscendo dal casello Val Vibrata o dall'Autostrada (A24), uscendo a San Nicolò a Tordino. Teramo è a 9 chilometri!

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