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sabato 27 settembre 2014

La solitudine della santa anacoreta!

L’eremitaggio di Santa Colomba è situato a mezza costa di un erta ripidissima del monte Infornace, nel complesso del Gran Sasso d’Italia, a cavallo di uno stretto schienale di montagna dal nome minaccioso, la “costa del Malepasso”.

E’ questo una sorta di sperone roccioso che divide il monte Brancastello dal Prena, la cosiddetta “mamma dell’acquedetto del Ruzzo da dove nasce l’acqua che arriva nelle nostre case.

Siamo a pochi tornanti dalla bella cittadina di Isola e qualche chilometro dal paese di Castelli con le sue famose ceramiche.

In questo luogo impervio si accede dopo una passeggiata gradevole di circa un ora per un sentiero facile nell’orientamento che si dipana in un bosco ceduo.
Secondo la tradizione, proprio in questo luogo nel XII secolo, la giovane Colomba, figlia dei Conti di Pagliara e sorella del futuro vescovo di Teramo Berardo, abbandonati gli agi della ricca famiglia si ritirò in preghiera e penitenza.

Fu lì che la morte la colse, amorevolmente assistita dal fratello.
Nel 1595 le sue spoglie furono traslate nella chiesa di Santa Lucia ma solo molti anni dopo, nel 1955 la statua raffigurante Santa Colomba, e le sacre spoglie, vennero trasferite nell'attuale cappella di Pretara.

Alcuni studiosi mettono comunque in dubbio l’appartenenza della santa alla nobile stirpe dei Pagliara e la sua fratellanza con San Berardo.
La giovane sarebbe stata sorella di Sant’Egidio e San Nicola.

Tutti però concordano nel definirla bella, simbolo di purezza e candore verginale, ritratta il più delle volte col fiore simbolo di pulizia interiore, il giglio.

Anche il nome Colomba sta a ricordare questo volatile candido, immagine dell’innocenza.


Forse fu proprio per questo desiderio di rimanere pura, che la giovane volle staccarsi prepotentemente dal mondo, per elevare la sua anima nella perfetta solitudine di questo magnifico posto.
Parliamo di un luogo dalla gran fama di mistero.
Sono numerose, infatti, le leggende legate all’ eremo che il primo di settembre si anima per una processione di pellegrini dediti al culto della santa bella e pura.

I vecchi della zona raccontano di tesori nascosti, superiori come ricchezza a quelli che sarebbero celati tra i Monti Gemelli e il Castel Manfrino.

Qualcuno ancora in vita, ad Isola, sembra abbia provato ad estrarre un forziere internato nella zona ad oriente della chiesetta.


Ma c’è chi giura che il malcapitato, quando fu sul punto di trovare qualcosa, d’improvviso sentì il badile cozzare contro resti di ossa umane e cranio compreso. Incredibilmente tali ossa, secondo il racconto, avrebbero cominciato a sbattere l’uno contro l’altra con gran frastuono, suscitando nello sventurato una tale orrida paura da fargli diventare di colpo tutti i capelli bianchi nonostante i suoi 35 anni. Inutile dire che qualche secondo dopo le sue gambe quasi toccavano la testa nella fuga.

Dentro l’eremo c’è un altare anonimo e lo stanzone è disadorno.
Eppure per chi conosce le storie incredibili di questo posto l’altare, in realtà, avrebbe un grande valore.

Il manufatto antico sarebbe miracoloso!
Sarebbe in grado di guarire coloro che v’introducono il capo attraverso un foro esterno.
Nel mettere il capo dentro questo buco, sarebbe possibile guarire da cefalgie, nevralgie, emicranie a grappoli e quant’altro.

Il noto scrittore Giovanni Pansa racconta tutto ciò nel suo stupendo “ Miti, leggende e superstizioni d’Abruzzo”.

Lungo la stradina in mezzo alla foresta che accompagna la lunga e faticosa ascesa al monte Prena e porta nel luogo dove la bella Colomba sembra passasse ore ed ore in contemplazione della natura e dei doni di Dio, alcuni giurano che sia possibile anche notare, distintamente, le impronte della mano e del pettine lasciate dalla giovane quando usava sciogliere i suoi lunghi e folti capelli.

Tornando all’altare miracoloso, è frequente in Abruzzo, dare a luoghi santi degli incredibili poteri taumaturgici.

Ogni anfratto, parete, pietra o nuda terra, viene utilizzato per strofinarsi col corpo e aspettare prodigiose guarigioni da ogni tipo di male.

E’ il caso a esempio, di San Domenico di Villalago vicino Barrea o di San Michele Arcangelo a Balsorano.

Secondo studiosi, tali pratiche divinatorie riporterebbero al concetto che la terra crea, distrugge, infine ricrea in un'altra dimensione.

L’eremo si mostra al visitatore provato dalla salita, già in lontananza su di una rupe a gradoni.

E’ proprio a lato di quella rupe che si trova un singolare affresco naturale a forma di pettine che si dice sia stato impresso proprio dal pettine lasciato per tanti anni incustodito dalla santa anacoreta, che lo usava per ravvivare la folta capigliatura.

Dietro la minuscola chiesetta di montagna, seminascosto dagli abeti, un masso di inaudite proporzioni porterebbe impressa la mano della fanciulla che ivi si poggiava per farsi forza nella salita all’erta china.

Naturalmente chi ha buone gambe si può cimentare nel continuare a salire verso il Cimone di Santa Colomba, raggiungibile risalendo il crinale alle spalle dell'eremo.
Siamo nel cuore della catena principale del Gran Sasso orientale.

 Ringrazio per i contributo fotografici i cari amici Massimiliano Fiorito e Alessandro de Ruvo!


Come arrivare ad Isola del Gran Sasso d'Italia:

Da Nord e da Sud
Dall'autostrada Adriatica A14 (da nord: direzione Ancona; da sud: direzione Pescara), uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, continuare sull'autostrada A 24, uscire a San Gabriele/Colledara, prendere la SS 491 e proseguire in direzione Isola del Gran Sasso.
Da Roma
Prendere l'autostrada A 24 verso Teramo, uscire a San Gabriele/Colledara, seguire la direzione Montorio al Vomano, proseguire in direzione Isola del Gran Sasso percorrendo la SS 491.
Da Pescara
Percorrere la SS 16 in direzione di Chieti, continuare sull'autostrada A 14, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, continuare sull'autostrada A 24, uscire a San Gabriele/Colledara, prendere la SS 491 e proseguire in direzione Isola del Gran Sasso.


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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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domenica 21 settembre 2014

Il Duomo di Teramo, baluardo di fede e arte!

Non tutti i teramani colgono pienamente le bellezze dell’assetto urbano che da Piazza Martiri della Libertà, a Teramo si estende intorno al Duomo.
La cattedrale che è in posizione baricentrica, rappresenta il fulcro delle principali vie cittadine.
Nel periodo imperiale di Roma la città aveva proprio qui il suo perimetro, tra piazza Martiri, via Torre Bruciata, la via del Cardo, oggi tra il Melatino e la chiesa di S. Antonio, del Baluardo e Noè Lucidi.

Il tragitto oggi che da Porta Reale attraversa il corso De Michetti e quello intitolato a Vincenzo Cerulli, grandi personaggi teramani, un tempo il Decumano da dove partiva l’arteria principale per Castrum Novum, l’attuale Giulianova, propone oggi al turista la vista della maestosità di questa cattedrale che ha il suo pezzo forte proprio nella facciata principale.

Costruito a “cento passi” dall’antica cattedrale, oggi S. Anna, sulle rovine di un tempio pagano dedicato a Giunone e Apollo, il Duomo vide la luce nel 1158.
Una struttura unica doveva legare il tempio con il grande complesso del teatro e anfiteatro, incorporati in quelle mura del cortile dove anni fa c’era un quotato Istituto di Scienze Religiose.

La prima costruzione fu realizzata utilizzando materiali delle abitazioni distrutte dai Normanni e pietre del teatro romano.

Era il 1078, i Normanni ci invasero alla caduta del Sacro Romano Impero e i barbari saccheggiavano ovunque.
Era proprio il tempo del vescovo Berardo da Pagliara che poi divenne il patrono della città.

Qualche anno dopo, nel 1152, Roberto di Loretello rase al suolo quasi tutto, compresa la chiesa madre di allora, Santa Maria Aprutiensis, attuale S.Anna. La città fu ricostruita a opera del vescovo Guido II.

Poi, correva il secolo XIV, periodo delle Signorie, il vescovo Nicolò degli Arcioni fece realizzare la facciata che, nel corso degli anni, si arricchì di una preziosa merlatura guelfa, simbolo inequivocabilmente del potere vescovile.

 Nel 1493 l’allora vescovo chiamò il Maestro Antonio da Lodi per il completamento del campanile che venne impreziosito da maioliche castellane.
Poco tempo dopo fu completata la grande campana aprutina fusa con maestria da Attone di Ruggero.

Dovremmo forse guardare con occhi diversi il nostro Duomo, soprattutto amare la nostra storia come identità e risorsa della città.
Far cadere lo sguardo ad esempio, sul portale, opera realizzata nel 1332 dall’insigne maestro romano Deodato di Cosma, appartenente al filone gotico abruzzese già presente ad Atri, Sulmona e Lanciano.

Se ci soffermassimo sui particolari scopriremmo gli stemmi della diocesi teramana, del vescovo Niccolò degli Arcioni, le sculture di Nicola da Guardiagrele, raffiguranti l’arcangelo Gabriele, l’Annunziata, il Redentore e il patrono San Berardo.

Spostandoci sul lato meridionale guarderemmo con attenzione la sporgenza semicircolare dell’abside della cappella dedicata al patrono, sotto la quale si trovano cippi e resti romani.

Tornando alla facciata principale e ammirando la scalinata, gli occhi non potrebbero non vedere gli austeri leoni che sorreggono le colonne sormontate da statue.
Il leone può essere, a ben ragione, ritenuto l’animale simbolo della città.

Sculture leonine si trovano a decorazione della fontana nella piazza dove si trova anche il palazzo comunale, a guardia del porticato dei Melatino, oggi sede Aci e del palazzo Savini.
Rappresentano la fierezza del popolo aprutino.

Vari vescovi si sono adoperati nei secoli per rendere monumentale il Duomo.
Il primo a essere ricordato non può non essere Guido II che fece erigere il monumento, poi Niccolò degli Arcioni che lo ampliò.
Le colonne interne, tutte diverse e il presbiterio notevolmente più in alto rispetto alla chiesa, denotano proprio le due strutture come erano secoli prima.

All’interno, ancora leoni, immancabili a guardia dell’ambone monumentale e della pregiata cattedra lignea, il cui trono episcopale con baldacchino sormontato dallo stemma dei vescovi aprutini conclude il perimetro della chiesa.

Si resta colpiti dal Paliotto argenteo custodito in teca sotto l’altare maggiore, opera del grande orafo Nicola da Guardiagrele.
Consta di 35 pannelli contenenti scene sacre della vita del Cristo.

A sinistra, imperdibile, la cappella di San Berardo con il Polittico, tavole lignee del ‘300 realizzate da Jacobello del Fiore, raffiguranti l’incoronazione della Vergine Maria.

Un altare barocco di pregevole fattura, custodisce l’urna con le reliquie del santo patrono.

Anche la sacrestia, che in tante chiese non ha valenza artistica, nel Duomo di Teramo riveste enorme importanza grazie anche a opere immortali di un polacco, pittore del ‘600 teramano, Sebastiano Majewski.

Correva l’anno 1622 o giù di lì quando il giovane polacco, che nel frattempo aveva firmato un ciclo pittorico con storie della vita della Madonna nel convento di Santa Maria delle Grazie a Ortona, venne chiamato a Teramo per il 500 esimo della morte di San Berardo, allorquando fu eretto un nuovo altare in onore del santo e a lui commissionarono sei tele che oggi lasciano stupefatti, chi in visita alla Basilica, si soffermi davanti all’altare in noce intagliato, in cui si ritraggono momenti della vita del patrono di Teramo.

In tarda età il grande pittore lasciò come regalo finale della sua incommensurabile arte, affreschi che ancora oggi ornano lo splendido chiostro dell’antico convento di Santa Maria di Propezzano nell’agro di Morro d’Oro, vero caposaldo del romanico aprutino, dove spicca per bellezza la scena della Visitazione dell’Angelo annunciante alla Vergine.

Uscendo colpisce di nuovo la vista il grande campanile di 50 metri con la sua parte terminale sormontata da un prisma ottagonale, realizzato da Antonio da Lodi, lo stesso che bissò il momento artistico, nella imperdibile Cattedrale di Atri


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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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sabato 20 settembre 2014

Il borgo dei motti ai piedi del Grande Sasso!

I resti del castello dei Conti di Pagliara, affacciati sulle scoscese forre che precipitano verso il borgo medievale di Isola del Gran Sasso, rivaleggiano in severità con la tozza corona di vette.

Gli occhi, meravigliati, salgono di quota verso splendide faggete.


Dopo una ventina di minuti di piacevole camminata, le pietre segnate dal tempo aprono agli occhi un luogo straordinario, arroccato su di uno sperone di roccia con vista mozzafiato sulla catena del gigante appenninico.
Si distinguono due torrioni piramidali, alcuni pezzi di mura della chiesina dedicata a Santa Maria.
Una singolare leggenda racconta di lunghi cunicoli sotterranei che collegherebbero il colle all’abitato di Isola, attraversando in profondità i dirupi circostanti.

Qui ovunque si può intraprendere corroboranti passeggiate.
Nella vicina Casale San Nicola, ad esempio, una bella mulattiera porta in circa 40 minuti al “pianoro dei frati” con una vista superba sul paretone del Corno Grande.
Qui, nel 1100, esisteva un insediamento monastico di oltre cinquanta religiosi.

Rimane solo una chiesina ristrutturata grazie all’intervento dell’Archeoclub.
Si aprono ovunque scenari di bellezza unica.
All’estremo, la grande parete levigata del monte Camicia si avvinghia alla biforcuta vetta della Forcella verso il Siella.
Il monte Prena dalla larga mole rigonfia si sussegue a semi cerchio col Brancastello e fino ai Due Corni, il Grande e il Piccolo e Cima Alta.

Il Montagnone si unisce in un abbraccio infinito al paese, con il largo pendio di Forca di Valle.

Può comunque apparire singolare che una località a soli 419 metri sul livello del mare ricordi il nome della vetta più alta degli Appennini ma questo accade perché il Gran Sasso incombe ovunque sull’antico borgo.
L’abitato è bello e raccolto con le sue viuzze, le piazzette monumentali con attorno alle mura, i due corsi d’acqua del Ruzzo e del Mavone a creare un ambiente idilliaco.
Una sorta di isola, appunto, come la tradizione vuole fosse definita nell’800, dallo scrittore Edward Lear che conobbe il luogo in uno dei viaggi immortalati nei suoi libri.

Le campagne a fondo valle donano colori vividi tra prati falciati e terrazzamenti sorretti da caratteristici muretti a secco, testimonianza di millenaria sapienza contadina.

C’è però una singolarità che caratterizza fortemente questo paesino del XII secolo: le straordinarie quanto singolari iscrizioni che adornano i piccoli portoni e le finestre antiche, piccoli motti secolari realizzati in latino, molti dei quali purtroppo sono andati irrimediabilmente perduti.

Sono antiche e sagge sentenze di tipo popolare che presuppone la conoscenza di questa lingua ormai scomparsa: “Amico fideli nulla esta comparatio”, nulla è più importante di un amico fedele;
“Amicum esse licet sed usque ad aras, oppure “Virtutis laus in actionibus consistit”.

Forse gli abitanti se dovessero scegliere uno di questi detti opterebbero per il “melius mori quam foedari”, meglio morire che essere disonorati.
Questo suggerisce la storia secolare del luogo.

Molte di queste scritte furono portate dal monastero di Fano A Corno, quando un terremoto, nei primi anni del settecento, rimaneggiò profondamente la struttura, abbandonata subito dopo dai camaldolesi.

Isola, antico paese della Valle Siciliana ha sempre vissuto sotto dominazioni prepotenti e terribili, dalla crudele famiglia dei Pagliara agli Orsini con il primogenito Napoleone, fino a Camillo Pardo che abdicò in favore degli Alarcon Mendoza ai tempi della dominazione spagnola nella valle.
Era il 1526 quando l’imperatore Carlo V, durante la ristrutturazione del Regno di Napoli, assegnò la valle allo spagnolo De Alarcon, una sorta di premio per aver combattuto valorosamente nelle battaglie di Parma e Piacenza.

Allora il paese di Isola era ben diverso.
Si accedeva al suo ingresso attraverso delle porte che delimitavano il castello, le più importanti delle quali erano il “Torrione” e la “Cannavina”.

Questa comunque è terra di santi, amici miei: Gabriele dell’Addolorata con il santuario tra i più visitati d’Italia, è a pochi metri; la dolce Colomba, sorella di San Berardo ha vissuto nelle foreste che circondano l’abitato; Frà Nicola visse qui un eremitaggio di anni, amato da tutti i paesani in una grotta oggi chiamata Frattagrande; infine diversi religiosi hanno vissuto per anni in modo ascetico in grotte di fortuna sotto la montagna.

Fate un esercizio utile per il fisico e per la mente: girate senza meta nel paese godendo dei panorami e dell’antichità che trasuda dalle stradine interrotte qua e là da piazzette silenti.
Un vero labirinto di vicoli intersecanti tra loro, coronati da qualche vetusto palazzotto gentilizio, chiesine in pietra a conservare segni di un suggestivo passato.
Scoprirete anche qualche finestra finemente disegnata con cornici, bifore, stemmi, opere d’arte dal
continuo sovrapporsi di stili che richiamano tanti piccoli abitati intorno.

Obbligo è visitare la chiesa madre dedicata a San Massimo, con il bel portale di Matteo da Napoli, del 1420.

All’interno, la navata di sinistra, offre il bel colpo d’occhio della cappella di San Iacopo, col piccolo battistero rinascimentale in pietra bianca, ornato di fregi animaleschi e testoline di putti adoranti.
Nella sacrestia un inaspettato gioiello, un ostensorio quattrocentesco impreziosito da un pannello in maiolica di Castelli raffigurante la Madonna con Bimbo fra San Berardo e Santa Colomba, che dicono sia stato rinvenuto nell’eremo della donna, sorella del patrono di Teramo, che si visita camminando nei boschi circostanti.

Prima di andar via, mi reco davanti alla graziosa Cona di San Sebastiano, fuori le mura.

La trovo di nuovo chiusa e le chiavi non reperibili.
Anche questa volta non sono riuscito a fotografare gli affreschi del grande Andrea De Litio, uomo del Rinascimento!


Arrivare a Isola:

Itinerario più veloce e meno interessante:
A24 Teramo Roma, uscita San Gabriele Isola. Poi due chilometri per il paese.
Itinerario piacevole e ricco di luoghi ameni e interessanti:
S.S.150 Roseto- Montorio al Vomano. Oltrepassata Val Vomano e Zampitti Salara, verso Montorio, svoltare al bivio a sinistra e seguire indicazioni Isola, Santuario San Gabriele.
Dal mare di Roseto sono 48 chilometri, da Giulianova 53, dalle Marche di Porto d’Ascoli circa 70 chilometri.

Per mangiare ci sono molti locali dignitosi a buon prezzo e ottima qualità sia in paese, che nei piccoli borghi intorno come a San Pietro, circa 800 metri sul livello del mare.


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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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