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domenica 25 gennaio 2015

A Teramo le opere d'arte le nascondiamo!

I beni culturali ecclesiastici in Italia, eredità di popoli e millenni, costituiscono almeno i due terzi dell’intero patrimonio nazionale.
Non potrebbe essere altrimenti se guardiamo alle cifre: su 95 mila chiese, 30 mila di esse sono ai massimi livelli della storia, i santuari si avvicinano al numero duemila, i monasteri toccano le cinquecento unità, così come le abbazie.

Numeri impressionanti elaborati qualche tempo fa dal Censis.

La massima diffusione di “loca sacra” è nel centro nord.
E queste emergenze religiose, storiche e culturali non raccontano di un’unica civiltà come accade ad esempio all'Egitto o alla Grecia.

Da noi, le opere rappresentano infinite civiltà che si sono susseguite senza sosta, nel nostro territorio.

Sono partito da lontano per raccontarvi cosa di brutto accade in una città, la nostra Teramo, dove la cultura a volte viene negata alla sua naturale funzione che è quella di essere diffusa.

Alla non fruibilità di un mosaico pregiato come quello del Leone, chiuso all'interno di Palazzo Savini, si aggiunge un altro “delitto culturale”.

Pochi sanno, infatti, dell’esistenza di un’opera d’arte insigne, celata al popolo teramano e ai turisti che si avventurano fino in città.
Parliamo di un affresco sacro di notevole importanza documentaria e storica, non accessibile a cittadini e visitatori, quasi nascosta nell'ex convento di San Francesco, adiacente alla chiesa di S. Antonio, nel centro di Teramo.
I locali di proprietà demaniale, per molti anni occupati dall'Intendenza di Finanza, oggi sono utilizzati, guarda caso, dalla Soprintendenza Archeologica ai Monumenti. Questo è l’ente deputato alla salvaguardia dei Beni Culturali, quello cioè che tutela e favorisce le opere d’arte di cui sono proprietari unicamente i cittadini.

Si tratta di una lunetta dipinta, ubicata in un ex passaggio di comunicazione tra il chiostro e la chiesa, chiuso anteriormente al 1448 e decorato.
È un dipinto sacro, due finestre di bifore del Trecento che, in antica epoca, faceva parte del portico, lato nord del convento dei Padri Francescani.

Oggi questo luogo è usato per un ufficio, dopo che l’utilizzo per molti anni era stato di deposito materiali di risulta.

L’opera sarebbe stata realizzata da un monaco della seconda metà del ‘400 e rappresenta l’immagine della “Pietà”.
Il dipinto è solo uno di altri affreschi esistenti lungo il perimetro del portico, ma ha una peculiarità che lo rende ancor più importante.

Le due iscrizioni, in basso lateralmente, testimoniano la grande importanza devozionale: chi ammira e prega davanti all'opera può lucrare un’indulgenza antichissima.

Il testo latino, infatti, recita più o meno:
“San Gregorio e altri Sommi Pontefici e tutti coloro che, veramente pentiti e confessati, s’inginocchiano davanti all'immagine della Pietà e pregheranno, avranno ventimila e sette anni giorni di piena indulgenza e questo è confermato dal Papa Nicolò V, anno Domini 03.01.1448”.

L’altra scritta, alla base della lunetta, è una profonda preghiera al Santissimo appeso alla croce, incoronato di spine.
Si chiede di essere liberati dall'angelo del male che porta con sé il peccato.
Al Cristo abbeverato di fiele e aceto si chiede la liberazione dalle piaghe dell’anima.
L’incisione in latino, termina con l’eloquente frase: “Che la Tua morte sia la mia vita!”.

Al valore devozionale di questa bellissima catechesi muraria sul peccato e la misericordia di Dio, si aggiunge anche la pregevole rappresentazione.

Il Cristo esce dal sepolcro col cartello INRI, tra la Madonna in preghiera e San Francesco, munito di piccola croce, intento alla sua famosa preghiera al Crocifisso.

Attorno a Gesù ruotano, come in un unico filo narrativo, i simboli della Passione: la lancia, la pertica con la spugna, il flagello, le dita incrociate a scherno, la canna scettro, la scala e la tunica rossa coi dadi.

Ci sono anche delle incongruenze nell'opera che di certo non diminuiscono l’importanza ma che è interessante rimarcare:
San Giovanni Battista non è rappresentato come di consueto, vestito di pelli e con torso nudo, al contrario ha una tunica rossa e in mano un libro, così da poter essere scambiato per l’altro Giovanni, l’Evangelista.
Inoltre un qualcosa di incomprensibile la propone la figura di S. Antonio da Padova che, anziché il giglio, porta con se una palma, simbolo del martirio.

Infine, nella lunetta,l’autore attribuisce la famosa frase :”Ego sum lux mundi” al Padre anziché al Figlio!

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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