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sabato 30 maggio 2015

Sulle vie della storia! Viaggio nel gioiello nascosto di Alba Fucens.

A volte ci si sorprende a pensare a un Dio molto faticoso da cercare, che non si mostra mai, che ti fa percorrere cammini ignoti e ti fa obbedire a una disciplina senza logica apparente.

Poi, altre volte, capisci invece, che nella vita immersa nell'entusiasmo stanno davvero le porte del Paradiso.

È proprio questo entusiasmo che ci mette in pieno contatto con lo Spirito Santo e ci fa pensare alla vita non come un mistero di una povera esistenza ma a un autentico miracolo.
Ho pensato a questo davanti ai resti dell’antica colonia romana di Alba Fucens.
Un ambiente spettacolare: la distesa di ciò che resta di un’antichissima urbe, ai piedi di una montagna severa come il Velino, ciò che rimane di un castello dalle possenti mura si di un’altura a nido d’aquila e una misteriosa chiesa su di un colle vicino.
Le pietre raccontano la vita, secoli di esistenze difficili ma affascinanti e possono aiutare a capire dove camminiamo e in quale direzione siamo diretti.

Mi trovo nel comune di Massa d’Albe, provincia dell’Aquila, cuore della Marsica.

In questo paese distante una manciata di chilometri parte un percorso bellissimo ma infame nella distanza e nell'esposizione al sole cocente o alla neve e pioggia che imperversano per conquistare la vetta di una montagna scorbutica e insolita.

È il bello di chi approfondisce un parco regionale che è tra i più belli d’Italia, quello del Velino Sirente!
Chi scrive ha percorso questo sentiero per sei lunghe ore e non lo dimenticherà mai.

Qui ad Alba Fucens, invece, si arriva anche in auto e proprio davanti al sito archeologico.
Guardo le pietre e mi sento come nel mezzo di un viaggio affascinante all’interno di una prodigiosa macchina del tempo!
Guardare le pietre significa correre vertiginosamente all’indietro e fino al 304 a.C., data fatidica in cui alcuni storici e tra essi il famoso Tito Livio, collocano la nascita ufficiale di questa cittadina, posta nel cuore dell’antico territorio degli Equi.
Era questo un fiero popolo italico, militarmente organizzato che scelse proprio la collina di Alba, per dominare con la vista tutte le vallate intorno.

L’aquilano, cari lettori, ricopriva un ruolo strategico assai al confine fra Sabini, Vestini Peligni ed Equi, appunto.

C'era una sorta di compartecipazione di usi e costumi sia pure nell’ambito di autonomie tribali della civiltà medio italica.

Inoltre le culture settentrionali attraversavano l’Abruzzo, in transito verso l’Adriatico, la Campania Felix e la Magna Grecia.
La nostra terra era stata eletta a ruolo di snodo e crocevia territoriale cui pose fine la sottomissione a Roma.

Gli Equi edificarono delle mura per circa quattro chilometri con massi poligonali di grande dimensione, costruendo all’interno, una città con strade, abitazioni e gallerie sotterranee di difesa.
Il luogo era ritenuto magico.
Gli Equi ben sapevano che nel punto dove si poteva ammirare pienamente l’inizio di un giorno, lì c’era la mano di Dio che soprassedeva a tutte le cose del mondo.
È pacifico che non era un solo Dio a occupare le loro menti.

Ed ecco il motivo per cui, oltre al tempio dedicato ad Apollo, posto su di un colle dove oggi svetta la vecchia chiesa di San Pietro e i resti del convento, a volte depredati da maledetti tombaroli, se ne contano almeno altri due un tempo dedicati a oscure divinità del momento.

I Romani, amici miei, faticarono non poco per conquistare questo sito ben difeso.
Sollevarono più volte le loro spade, impegnarono buona parte del loro potenziale bellico per ridurre allo stato di schiavitù il piccolo ma duro popolo che difendeva strenuamente le loro origini.

Poi, le fiamme dei fuochi distruttivi crepitarono, le fosse comuni furono scavate e riempite, il suolo spianato dai crudeli invasori che ebbero la meglio in una battaglia sanguinosa ed epica.
Alba Fucens divenne una giovane colonia e in pochi anni si dimostrò fedele verso Roma molto più delle altre colonie.

Il popolo fucense brandì le sue armi d’acciaio che non si distrugge, dalle impugnature in legno che la terra non può consumare, difendendo la Caput Mundi dal bieco Annibale della seconda Guerra Punica.
Gli Albensi combatterono contro tutti e tutto: Galli, Sanniti, Umbri, Averni, anche quando erano scomparsi da tempo i due consoli benvoluti che avevano insegnato l’amore per Roma: Lucio Genucio e Servio Cornelio.

Il luogo divenne così ricco e Roma decretò Alba Fucens Grande Municipio!
Questo fin quando terremoti sconquassanti e invasioni barbariche non decretarono l’immatura fine della città.

Ci fu un sussulto di ripresa in epoca medievale quando venne costruito il castello sul colle San Nicola introno al XV secolo.

Ci pensò Carlo D’Angio e le sue teppaglie a distruggere tutto e neanche una momentanea parentesi della potente famiglia degli Orsini, salvò il luogo dall’incuria e dimenticanza, preda di briganti.
Nel 1915 il più furioso dei terremoti rase al suolo tutto.

Il cartello all’ingresso della piana dove insistono i ruderi, consiglia un numero telefonico per avere a disposizione una guida.
La donna che arriva subito da una casa vicina è una giovane madre che volontariamente si presta a guidare i turisti lungo un affascinante percorso nella storia.
Apre il portale della chiesa di San Pietro, unica realtà monastica in Abruzzo in cui la navata centrale è separata dalle laterali grazie a colonne antichissime.
La basilica è di epoca Sillana, II secolo a.C., anticamente sotto c’era un Tempio di Apollo
La giovane sembra quasi scusarsi del fatto che, al suo interno, è rimasto ben poco.

I ladri in un paio di incursioni e, poi, i musei di Celano e Chieti per difesa, hanno portato via tanti tesori sotto forma di lapidi, monete, vasi, statue e altri rinvenimenti.

Ciò che resta vale comunque la pena di ammirarlo, tra colonne tortili dell’iconostasi di scuola cosmatesca e un abside di tutto rispetto.

Scendo nel grande anfiteatro di circa cento metri per ottanta.
Un brivido pensare che questo immenso catino ospitava gli spettacoli dei gladiatori.
Si vedono bene i piccoli vani dove erano rinchiuse le pericolose fiere.

Lungo il decumano massimo visito i resti evidenti di un’antica domus romana, tra sprazzi di mosaici e pezzi di colonne.

Lungo vie laterali si intuiscono le pietre di antiche taverne dove si mangiava e faceva festa.
Poi la zona del Mercato, le terme con pezzi che raffigurano mostri marini, i bagni ben divisi tra maschi e femmine e il Sacello di Ercole.

Per informazioni
www.albafucens.info
albafucens@virgilio.it

Per mangiare io ho assaggiato superbe carni locali al "ristorante Anfiteatro" di fronte la chiesa in piazzetta.
Gestione familiare e prezzi modici!

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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sabato 23 maggio 2015

Le meraviglie di Rosciolo in valle Porclaneta.

Costanza ha un'età.
Si è curvata sotto il peso degli anni, ma quando il vento scuote un albero vecchio, si dice che cadono giù le foglie ma il tronco rimane fermo.

Le mani della dolce vecchina sono incallite, il cuore però è grande.
Racconta storie da regina.


Da quella bocca antica escono benedizioni miste a ricordi ed emozioni senza tempo.
Narra di un paese, Rosciolo, dove un tempo venivano chiuse le porte d'ingresso la sera per essere riaperte al mattino successivo, incastellati per bene a difesa di malintenzionati.
Erano tempi duri e il borgo era circondato da portici e mura.
Anche oggi è difficile vivere da queste parti.
E' davvero ciarliera Costanza, ascoltarla è un piacere.

Siamo nell'antico abitato, pochi passi da Magliano dei Marsi, cuore dell'aquilano, proprio dove la terra trema e si muove anche a darmi il benvenuto in questa calda mattina di aprile.

La combattiva donna neanche le conta più le scosse, le gambe degli abitanti di Rosciolo non tremano certo di paura, sanno convivere con le bizze della terra.

Il posto è suggestivo, elevato com'è su di una collina calcarea, in ginocchio ai piedi del re, il monte Velino, a 900 metri di altezza.

Ne conta qualcuno in più la vetusta parrocchiale dedicata a Santa Maria delle Grazie, che si stacca imperiosa, dall'anonima piazzetta, nella parte più elevata del borgo medievale.
Strette vie si dipartono dalla chiesa, tra antichi resti e case imbrunite dal tempo.
E' come essere in viaggio all'interno di una prodigiosa macchina del tempo.

Ci teneva Costanza a portarmi all'interno di questo tempio prima di farmi scoprire il gioiello della Valle Porclaneta per cui ho fatto questi chilometri sull'autostrada Teramo Avezzano.

Si, tutti vengono fin qua alla scoperta di Santa Maria in Valle, antico manufatto sacro dell'XI secolo.

"Anche la nostra Santa Maria delle Grazie merita i tuoi occhi"- dice ridendo la vecchietta terribile.

Un sagrato rettangolare, sopraelevato di qualche gradino in pietra precede la facciata squadrata, contornata a sinistra da una tozza torre campanaria con, a destra, un bel rosone romanico elegante, affiancato da uno più piccolo.

Sull'architrave dell'ingresso principale c'è una bella lunetta con affresco di Madonna con Bimbo che regge il globo, affiancata da San Giovanni Battista e San Pietro, accanto a tre angeli.
Entro e rimango basito.

Sulla bacheca della chiesa campeggia una foto gigante che ritrae Costanza insieme al Papa emerito Benedetto XVI, col parroco del paesino e il segretario particolare di Sua Santità.
Anche il pontefice è arrivato fin qua per scoprire la Maria di Valle Porclaneta e anche lui ha dovuto visitare la chiesa del centro storico.

Scopro che Costanza è di casa in Rai; è apparsa in video, ripresa dalle telecamere di Sveva a Geo e Geo e dal Bevilacqua che conosciamo in Sereno Variabile.

Non ci resta che andare in auto in mezzo alle campagne, oggi solitarie, ma un tempo ricche di case e proprietà della Chiesa, che si estendono sotto la montagna madre.

Andiamo alla scoperta del secolare tempio, patrimonio dell'umanità e Monumento Nazionale.
Nell'aria c'è una luce vivida e il panorama è sontuoso.

La chiesa di S. Maria in Valle Porclaneta è poco distante dal sentiero impervio che sale sul Velino, a quota 1006 metri.
Costanza è prodiga di notizie!
Mi invita a guardare attentamente la facciata del manufatto dove le falde del tetto ripeterebbero perfezione la sagoma del monte sopra.
Sarà ma io non scorgo questa somiglianza.
L'esterno è anonimo.

Piuttosto la mia attenzione è dedicata al tipo di scrittura che si trova sui capitelli e il portale con lunetta, sormontata da un delizioso affresco di Nostra Signora con due angeli ai lati dei primo del secolo XIV.

L'anziana fa fede al suo nome, con "costanza" e dedizione continua a informarmi.

La chiesa sarebbe risalente al VII secolo anche se il primo documento certo è del 1048 dove si legge della donazione del castello di Rosciolo al monastero di Valle Porclaneta.

Poi gira la chiave nella toppa, l'antico portale, pesante, cigola sinistramente fin quando, aprendosi, schiude le sue meraviglie!

Nelle tre navate con abside centrale semicircolare c'è tutta la sapienza creativa dell'arte nel mondo: stili diversi da preromanico a romanico e bizantino; capitelli con animali incredibili, simboli primordiali o templari, figure geometriche, fiori della Vita ... fin quando, addossato a una colonna di pietra, si offe alla mia vista il magnifico ambone del 1150, opera di Roberto e di Nicodemo che già avevano creato altrettanti manufatti in altre chiese abruzzesi, come Santa Maria del Lago a Moscufo nel pescarese.

Qui però gli artisti erano in stato di grazia! Le sculture sono incredibilmente belle e originali: c'è Giona che viene espulso al ventre della balena, Salomè che danza sinuosa, il mitico Sansone dai capelli fluenti che ammazza un leone con un bastone, il tutto in un susseguirsi di angeli e figure sante .

Non finisci di essere rapito da cotanta bellezza che la mia cicerone quasi mi urla di guardare con attenzione all'"Iconostasi", struttura ricca di icone e posta in alto a separazione tra la parte dedicata ai catecumeni battezzati e religiosi dal resto dei fedeli.

Ora gli occhi si sgranano verso un trionfo di draghi, grifoni, tra colonnine eleganti, fregiate da giri di foglie e fiori e parte lignea in quercia del 1240, che soffre l'usura del tempo.

La gioia di essere dentro questo tesoro è grande.

Non avevo mai visto tanta arte tutta insieme.
Tra affreschi del trecento, in fondo troneggia il "Ciborio" quasi ricamato nelle sue sculture, ricco di figure arabeggianti che gli stessi autori dell'ambone hanno regalato all'eternità.

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Rivolgetevi per la visita a Costanza prenotandovi al 3482768926 o 3407947704 o fisso al 0863517691.
Attenzione, c'è la possibilità di dormire nel piccolo ostello con cucina e bagno a lato della chiesa donando un'offerta libera, (sei- otto posti letto!).

Per raggiungere Magliano dei Marsi e Rosciolo nel parco Regionale del Velino Sirente, percorrere l'autostrada A25 direzione L'Aquila Avezzano, uscita Magliano.
Si mangia bene ovunque.
Io ho mangiato ottima carne locale alla brace al Ristorante "Anfiteatro" di fronte ai resti dell'antica città romana di Alba Fucens assolutamente da visitare a circa 18 chilometri, direzione Ovindoli.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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venerdì 1 maggio 2015

La Teramo virtuosa: una ricetta contesa

“Occorre, oltre ai tanti ingredienti, un pizzico di pazienza, quanto basta di laboriosità e una noce d’attenzione”.
Se lo dice la signora Maria D’Ignazio, c’è da crederci.
“Te le faccio io le Virtù! Ti ci lecchi i baffi che non hai, garantito!” .

Da oltre un cinquantennio, l’esuberante cuoca ogni primo di maggio inizia, quando albeggia, la preparazione delle “virtù”.

La donna ha vissuto una mezza vita a Teramo, l’altra la sta trascorrendo a Roseto degli Abruzzi.

Da anni nella sua casa al centro della città delle Rose, continua a preparare il primo di maggio questo piatto tipico della cultura gastronomica teramana.

Racconta che ogni volta è polemica, di quelle feroci, con qualche sua improvvida amica rosetana che ama preparare la ricetta, aggiungendo ai tanti ingredienti anche il pesce dell’Adriatico.


“Il pesce assolutamente si!”- decretò in una intervista che realizzai per un quotidiano anni fa, la signora Gina Consorti virtuosa cuoca di Santa Petronilla: “facendo attenzione nelle dosi delle varie verdure, per non far scadere il piatto a vile minestrone, il pesce serve a mitigare i sapori forti”.

Certo è che, per i puristi del piatto, si tratta di un'autentica bestemmia gastronomica!
Solo chi abita a Teramo o vi è capitato un primo di maggio, sa cos’è questa ricetta della tradizione aprutina, dallo spessore non solo gastronomico, ma sociale e di dimensione antropologica.
Un overdose di cibo dalle radici antiche, di quando si faceva di necessità virtù, utilizzando prodotti poveri per preparare un piatto ricco.

Una ricetta teramana riconducibile a una tradizione che riassume i dati peculiari del popolo di Teramo: lo sguardo attento ai valori del passato, la modestia nel vivere, l’arte dell’arrangiarsi in tempi difficili.
Questo superbo piatto è protagonista, da generazioni, di ogni tavola imbandita di primavera.
È un tripudio di sapori tra vegetali e legumi di ogni tipo, pasta secca e all'uovo, prosciutto, cotiche e piccole pallottine di carne.
“Non scrivere tra gli ingredienti l’aggiunta di tortellini o paste ripiene.
Non fanno parte della nostra cultura”- aggiunge Maria mentre rimesta nel pentolone.

Il buongustaio e compianto scrittore teramano, Rino Faranda, ricordava, in un suo libro, l’importanza degli odori e delle erbette auspicando, nella preparazione, l’uso generoso di salvia, sedano, prezzemolo, menta selvatica, borragine.

Il grande giornalista Fernando Aurini ricordava nei suoi articoli che le “Virtù” venivano preparate in grande abbondanza per essere distribuite a parenti e amici.

Dimenticare il pentolino per il vicino di casa, scriveva, era uno sgarbo tale da incrinare anche l’amicizia più collaudata.

Non uscì indenne da questa gustosa tradizione, neanche il grande Giammario Sgattoni , che fu sedotto dal piatto teramano, al punto da definirlo "Il delirio della gola aprutina".
Non poteva trovare frase più calzante di questa, per definire il ripetersi cadenzato, come scrive il cultore dell’Arcigola Di Domenicantonio, di un rito culinario che torna come favola ad arricchire la nostra memoria.

Chi non ricorda Dina, la famosa signora Patruno, teramana fino alle midolla, scomparsa qualche anno fa.
Quando, per alimentare ad arte una polemica, raccontai delle Virtù al pesce, la vidi inorridire nel sentir parlare di Adriatico.
“E’ l’unico ingrediente che mai troverà posto nella saga dei virtuosi - mi disse con forza.

Nell’universo dei sapori dove si caldeggia l’utilizzo di uova, prosciutto, cotenna, piedini, orecchio, musetto e ogni tipo di pasta di grano duro, è pura eresia introdurre polipi, gamberetti, vongole e cozze.

Dina, ricordo che iniziò un lungo racconto, nel suo fantastico laboratorio di gusto e memoria, tra una zucchina ripiena e carciofi sott’olio, che si trattava di un prodotto unicamente di Teramo, nato intorno alla fine dell’800 quando la pulitura delle madie, fatta dalle massaie a fine aprile con l’inizio della primavera, esigeva di non buttare i resti degli alimenti non consumati nelle giornate fredde.
Le dispense venivano ripulite dei legumi secchi, dei tipi di pasta spezzata, mettendo da parte il tutto per economizzare e mischiarlo alle primizie della campagna.

La tradizione voleva la festa del primo di maggio per scongiurare la venuta delle zanzare d’estate e per augurare l’abbondanza dei raccolti.
In più in questo giorno si preparavano enormi pignatte piene di “Virtù” che venivano distribuite ai tanti poveri del paese in beneficenza.
La prelibatezza gastronomica coniugava l’esigenza del gusto con il risparmio.

La parola d’ordine era “parsimonia” e l’utilizzo dei prodotti della terra, unitamente all’uso di ciò che restava in dispensa dopo il lungo inverno, raggiungeva questo scopo.

“Tu non sei tanto giovane - ammiccò la donna - non ricordi che i contadini fino a poco tempo fa raccoglievano anche le briciole del pane e che un pezzetto di crosta caduto per terra era raccattato, baciato e poi consumato”?

Vero!
Le dispense erano ripulite dei legumi secchi e della pasta spezzata e, per economizzare, mischiati alle primizie della campagna.

Era questa la “virtù” della donna di casa: riuscire a conservare ingredienti deperibili, facilmente aggredibili da muffe, tarli e altro, nonostante la mancanza di congelatori e conservanti.
"Però, attenzione - continuò Dina - questo cibo, se non lo sai cucinare svilisce a semplice minestrone! Occorre il mirabile connubio di una moltitudine di ingredienti ben amalgamati dal cuoco.
Non è per tutti!

Un tempo si credeva alle leggende.
Una di esse raccontava che il numero magico per fare buone le virtù era il sette come sette erano le pietanze nel tradizionale cenone della vigilia del Natale: sette virtù cristiane, sette ingredienti, sette ore di preparazione da parte di sette vergini … peccato che di ragazze illibate non se ne trovino tante oggi".
Rise la donna, divertita dalla sua battutaccia.
“Un tempo ci si voleva più bene", terminò con rimpianto.

Voglio chiudere questa celebrazione della cultura gastronomica teramana con le parole di un conosciutissimo avvocato:

“L’inimitabile armonia di sapori è ancora oggi il vero segreto della preparazione di un cibo così delicato”.

Furono queste le parole di Walter Mazzitti già Presidente del Parco Nazionale Gran Sasso Monti della Laga e creatore dell’”Accademia delle Virtù” movimento culturale che qualche anno fa si era prefisso la difesa della tradizione, genuinità e cultura delle Virtù teramane e della gastronomia dei nostri luoghi.

Oggi l'Associazione segna il passo ma le Virtù continuano a deliziare i palati dei buongustai.
Buon Primo di maggio, gente!

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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