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martedì 30 aprile 2013

L’anello di Padula

Alla scoperta di Macchiatornella, borgo magico con le sue cascate.
Panorami che trafiggono per la loro armonia perché la bellezza, come dice Ezra Pound, non si spiega, si ammira!


Il profilo aggressivo del Gorzano, nei Monti della Laga, sembra emergere come un’isola misteriosa all’orizzonte del mare di nebbia che caratterizza in prima mattina la fitta boscaglia ricca di faggi, cerri e castagni secolari.

Superato l’abitato di Padula, si apre il poggio su cui si adagiano le abitazioni di Macchiatornella.

Nel profondo di questi boschi sembrano essersi consumate leggende drammatiche nel corso dei secoli.

Qui pare abbia trovato rifugiato il conte Odoardo della nobile famiglia dei Sticchi, il quale, in preda a sconvolgimenti interiori all’indomani della morte della donna amata, si ritirò nel profondo della selva in eremitaggio.

Fu trovato morto di stenti e di freddo nel cavo di una castagno secolare che aveva adibito a dimora.
Sul luogo sorse un eremo, oggi scomparso.

Storie fantastiche raccontano che il borgo, secoli fa, fosse quasi recintato da una impenetrabile macchia montana, con un castello medioevale posto nella parte più alta del paese a guardia della vallata del Tordino.

Si spiega anche con questa leggenda la posizione dell’abitato, tutto in salita, al di sopra delle splendide cascate Cantagalli, un tuffo d’acqua che per secoli è stato creduto magico.

Un poeta le definì “…l’agitate acque che per gran sassi ribollon cadendo in strazianti grida”.

Nel bosco pare sia vissuto anche un negromante, incantato dalla magia del luogo, i cui amici - raccontano le fole degli anziani abitanti – sembra fossero gatti selvatici, lupi e faine, con i quali il vecchio demoniaco riusciva a comunicare non si sa come.

E più l’eremita si bagnava alle sorgenti di pietra, più sembra divenisse immortale.

In questi luoghi è possibile trovare buone quantità di tartufo, alimento controverso nell’antichità.
Questo tubero dalle forme sgraziate e dal colore nero, secoli fa, veniva guardato con sospetto.

Si credeva fosse animato.

Pianta o escrescenza del demonio e delle streghe che lo avevano eletto a loro cibo, pensare oggi al tartufo come il re della tavola ricercata, strappa un sorriso.

L’ESCURSIONE
Dal centro abitato di Padula, (m.932), si arriva al vecchio mulino e, seguendo il Sentiero Italia per la tappa del Ceppo, si raggiunge il “ponte Flammagno”.
Qui chi ama la flora scoprirà diversi esemplari di tasso, una specie arborea protetta.
Una breve deviazione porta alle cascate Cantagalli, tre balzi con cui il Fosso della Cavata confluisce nel fiume Tordino.
Raggiunta la Radura delle Macere (m.1140), si attraversa il fosso su di un piccolo ponte in ferro.
Una comoda sterrata permette di scendere, con davanti agli occhi una bella vista sull’alta valle del Tordino.

Difficoltà: turistica
Quota massima: Macere (m.1140)
Sviluppo: m. 3500
Dislivello totale: m. 426
Tempo percorrenza: 1h 15’



Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".

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lunedì 29 aprile 2013

San Pietro, palcoscenico dell'esistenza!

Il piccolo campanile della chiesa di San Pietro lancia la sua ombra obesa, mentre il sole sembra voglia accecare la piana di Campovalano.
Il tempio di solito è inspiegabilmente chiuso, perso quasi in uno splendido isolamento.
Eppure, in questo lembo di terra del comune di Campli, la storia ha disegnato mirabili traiettorie di esistenze.

Qui c’era un grande insediamento dell’Età del Bronzo. Era sempre qui la fantastica necropoli picena che tanti reperti ha donato alla storia e alla comprensione del vissuto.Tutto questo, a pochi passi da Teramo, l’antica Interamnia dai passati fenici.

La piccola chiesina dedicata al primo degli Apostoli, sorge in mezzo alla radura.
Fu fondata nel secolo VIII e fu ricostruita in forme romaniche all’inizio del secolo XIII.
È quasi andato distrutto il convento dei Premonstratensi di San Norberto, nel 1100 rinnovatore liturgico e riformatore del clero, che secoli fa era collegato al luogo sacro.
Pare che per anni si fossero insediati anche i benedettini.

Il monastero seppur piccolo, vantava l’appartenenza a quello di Antrodoco, dedicato ai santi Aurico e Giuditta.
Storia sontuosa quella di San Pietro, che parte ancor prima di quando i Longobardi del re Agilulfo, nel 593, raggiunsero lo storico accordo con l’allora papa Gregorio Magno.

L’uomo di Dio era notoriamente poco propenso alle preghiere e molto portato alle questioni politiche.
Il potere temporale e quello spirituale giunsero a una sorta di divisione del territorio, ridisegnando i confini.
Il teramano fu dato al duca di Spoleto, il sanguinario Ariulfo, che aumentò le sue angherie alla popolazione.

Il piccolo tempio racconta questa e altre storie paleo cristiane, grazie a manufatti barbari contenuti in incisioni sulle colonne, sui capitelli e le crocette d’ingresso.
Le testimonianze continuano, alzando il velo del tempo anche sulla storia di Roma, attraverso un sarcofago in pietra, sul muro della navata sinistra.
Raffigura il “Negoziante di Marmì”, Aurelio Andronico di Nicomedia, in Bitinia.

C’è anche un’abside dalla particolare conformazione, con tracce di modelli architettonici di fattura romanica.

Stili che si possono ascrivere alla scuola dei Maestri di Casauria e che riportano agli splendidi esempi ubicati lungo la Valle Siciliana di Santa Maria di Ronzano, San Giovanni ad Insulam, San Salvatore di Fano a Corno.

Questa minuscola struttura sperduta nella campagna farnese, a pochi chilometri dalla città d'arte di Campli, è stata crocevia della storia, un grande insediamento spirituale da cui dipese San Martino, nella vicina Guazzano, San Lorenzo in Garrufo, Santa Vittoria del piccolo borgo di Battaglia.

Tutte queste storie nobili fanno rimanere allibiti!

Perché non si valorizza definitivamente questa zona con il vecchio convento e la necropoli vicina?
Perché non è mai diventata fiore all’occhiello del turismo culturale tanto in voga oggi in Italia?

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domenica 28 aprile 2013

La faccia sconosciuta della Provincia: la valle del Fino

Resta sempre difficile spiegare perché una valle tra le più affascinanti dell’entroterra teramano come quella solcata dal fiume Fino, sia così trascurata e sconosciuta.

Eppure basta prendere l’auto e da Villa Vomano, seguendo la panoramica “365” che porta fino a Bisenti e Arsita, scorazzare senza meta per avere l’impressione di conoscerla da sempre.

E’ di certo un’area tra le più nascoste d’Abruzzo, ma anche tra le più belle in assoluto.
Il fiume omonimo attraversa questo pezzo di territorio, prima di unirsi all’abbraccio gorgogliante delle acque del Tavo.

La natura incontaminata, gli scorci incantevoli, la storia, le tradizioni antichissime, i monumenti e testimonianze di un passato glorioso, sono questi i valori aggiunti per una terra di colture e di vita contadina, zona di piccole proprietà e di onesto e quotidiano lavoro.

Un paesaggio letterario che io conoscevo sin da piccolo.

Mio padre, autista dell’Istituto Nazionale Trasporti, oggi Arpa, per lunghi anni ha guidato tra queste strade tortuose che s’insinuano lungo i fianchi delle colline, un bus pieno di studenti e lavoratori che da luoghi come Poggio delle Rose, Montefino, Castilenti, Cermignano, Castiglione Messer Raimondo, Bisenti, Arsita, ogni mattina raggiungeva Teramo per ripartire a pomeriggio inoltrato.

Io, quando il babbo me lo consentiva, ero dentro questo torpedone a saggiare gli umori del “popolo in cammino”.

Ricordo che posavo spesso lo sguardo sui colori che il sole esaltava dai finestrini della corriera, creando distanze assurde, giocando con ombre e spazi di luce, rivelando scorci inattesi, lasciando estasiati gli occhi di un ragazzo che a quel tempo non capiva di quale grande amore per la propria terra, sarebbe stato colpito in età adulta.

La valle del Fino è un susseguirsi di dolci colline, boschi, campi coltivati, sempre dominati dalla mole possente e aspra ma in qualche modo rassicurante, della dolomia del Gran Sasso.

Ancora oggi questo spicchio di provincia, è un mondo che ispira, spinge a confrontarsi con la grandiosità della natura e a interagire con essa.

Borghi medioevali, case raccolte tutte intorno ad antiche piazze dove si affacciano chiesa e palazzi signorili.

E poi, colline che cedono il posto a uliveti interrotti solo da nastri d’asfalto che s’inerpicano verso piccoli centri ad alta vivibilità.

Montefino, ad esempio, è un piccolo paese immerso tra calanchi affascinanti e con la storia improbabile del suo nome cambiato più volte in Montefiore, Montesecco fino all’attuale.

Merita attenzione il borgo di Bisenti che pare vivere in una sorta di dolce arrendevolezza, popolata da gente tranquilla che ha assimilato la quiete dei vicoli. La vita qui ha un diverso valore rispetto a esistenze urlate e portate oltre ogni limite.

E’ ancora lo specchio di un mondo in cui la vita era regolata dalla creatività degli uomini e le mani erano l’unico strumento cui demandare il destino.

Alla fine della valle, si scopre la rassicurante bonomia della gente di Arsita, tra colline da quadro impressionista.

E’ la tavolozza cromatica di un paese millenario, dove gli scavi del Monte Bertona, hanno fatto rifiorire testimonianze di protostoria, capanne quadrate che risalgono al Paleolitico superiore.

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sabato 27 aprile 2013

La piccola chiesa di San Luca a Teramo

Il diciotto di ottobre, la Chiesa ricorda la figura dell’evangelista Luca.
Il suo Vangelo ritrae, forse con maggior vigore rispetto agli altri evangelisti, la bontà di Gesù per tutti i peccatori.

Non a caso è definito dagli esegeti, il libro della misericordia, della benignità sconfinata di Dio.
San Luca è stato anche uno storico coscienzioso.

Ha raccolto con diligenza testimonianze orali e scritte sulla vita di Gesù e ha raccontato, negli “Atti degli Apostoli”, gli inizi della giovane Chiesa cristiana, incaricata dal suo Signore, di annunciare la salvezza a tutti gli uomini.

La figura di questo santo è quindi quella di un maestro spirituale convincente e poderoso nell’esempio.

Secondo una leggenda l’autore del terzo Vangelo, le cui reliquie si troverebbero nella basilica di Santa Giustina di Padova, fu il pittore della Vergine Maria con un quadro che poi sarebbe diventato il modello di tante Madonne Nere.

Per questo leggendario talento di pittore, oltre che per l’arte medica che esercitava, il compagno di Paolo (si veda Colossesi 4,14 e Filemone 24), fu scelto nel Medioevo come patrono di università di arti, corporazioni e accademie che riunivano pittori e scultori.

A Teramo, nella parrocchia di Sant’Antonio, si trova un piccolo tempio del Duecento, in Largo Melatini, antico varco d’ingresso della città, non lontano dalla zona archeologica di piazza S.Anna e l’antica Cattedrale di Santa Maria Aprutiensis.

La giovane studiosa Sandra Crisciotti regala notizie interessanti in un suo piccolo saggio, riportato in internet.

Questo luogo di culto è appartenuto per lungo tempo alla nota famiglia teramana dei Cameli che lo ricevette in juspatronato, diritto cui rinunciò nel secolo scorso.

La chiesa è stata, recentemente, restaurata con opere di conservazione, finanziate dalla parrocchia di Sant'Antonio presieduta dal parroco don Paolo Di Mattia.

L'edificio religioso, conserva ancora oggi le sue antiche caratteristiche architettoniche e la muratura è come quella della vicina chiesa di Santa Caterina, costituita da pietre non lavorate e frammenti di laterizi, allineati con buona cura.

La facciata è aperta dal piccolo portale realizzato con grossi conci di pietra squadrata e termina con un architrave piano poggiante su due mensole arcuate.

Una lastra di pietra rettangolare riporta la data 1380 e la figura scalpellata di un bue alato, simbolo dell'evangelista san Luca.

Il bue è tradizionalmente “animale dei sacrifici” e il Vangelo di Luca inizia proprio con la narrazione del “sacrificio” di Zaccaria che divenne muto per volontà del Signore fin quando la moglie Elisabetta, anziana e sterile, non partorì miracolosamente il Battista.

Tra l'architrave e la lapide si trova un piccolo frammento a rilievo che riporta la figura di un uccello che stringe col becco un ramo, decorato da bacche e foglie.

Il modesto spazio interno della chiesa è costituito da un'unica aula, a pianta rettangolare, racchiusa tra le mura di pietre a vista e coperta da un soffitto a capriate.


Al suo interno la chiesa custodisce un’antica acquasantiera barocca, un bell’altare ligneo dipinto del 1700 e una tela del 1800 raffigurante San Luca intento, proprio, a ritrarre la Madonna con il Bambino.

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venerdì 26 aprile 2013

Il maniero delle streghe!

Alla scoperta dei misteri di Roccascalegna, uscita Val di Sangro autostrada A14.

Non ci sono grida, non ci sono richiami.
Il suono di questa terra da quassù sembrano il silenzio e il fruscio del vento tagliente da settentrione.

Vista da questo lembo d’Abruzzo, la Majella è arrotondata e il Monte Pallano a meridione evoca misteri con i suoi resti archeologici.

La piana offre un bel colpo d’occhio, in lontananza il lago di Bomba e la sua macchia mediterranea lasciano intravedere la magia di queste valli.
L’antico camminamento di ronda si affaccia a picco, con vista sull’antico borgo medioevale.

La piccola chiesa di San Pietro del XII secolo è compresa all’interno delle mura del fortilizio e, dalla torre di sentinella, appare avulsa dalla massiccia struttura difensiva.

Occupa l’ultima propaggine dell’immane sperone su cui poggia il fortino.
Sono all’interno del castello di Roccascalegna.

Gli squarci sui muri più alti delle garitte, che consentivano l’uso delle bocche di fuoco, sembrano lanciare moniti inquietanti.
Le scalinate sopra al ponte levatoio di accesso oggi sono state restaurate ma un tempo erano gradini ricavati dalla roccia viva.

Il borgo medioevale dall’alto sembra ancora più incantevole.
Il tempo sembra essersi fermato tra porte antiche, vie strette e semi anulari.
La più importante è la Via “Codacchie” o della strettoia.

Il paese, a cavallo tra la valle del Sangro e quella dell’Aventino, ha una storia millenaria di terra di frontiera essendo stato confine naturale di gruppi di popoli antichi italici, Sabellici, Sanniti e Frentani.

Poi man mano sono passati, in maniera distruttiva, Longobardi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi.

Le colline dai rigogliosi pergolati di viti, contribuiscono ancora oggi a nobilitare l’immagine di questa cittadina murata.

Ideale cordone ombelicale tra passato e presente, il castello che domina la valle, oggi ristrutturato a spazio museale ed espositivo, rappresenta da solo un valido motivo per una visita.

La natura, grazie ad una vertiginosa rupe di calcare, ha contribuito nei secoli a dare il senso dell’inespugnabilità a questa rocca inquietante e affascinante, luogo di eroici capitani di ventura.

Numerose leggende ruotano intorno al paese e al suo castello, tra lupi mannari, streghe, apparizioni demoniache e tesori maledetti.

Intorno al 1587 aleggiava ovunque l’aria sulfurea delle streghe.

Un periodo di grave carestia in cui i raccolti scarseggiavano da anni e la popolazione era alla fame.

La colpa di ciò fu data agli strani raduni che si svolgevano proprio all’ombra della rocca, in fondo all’ultima strada quella dello “spino santo”.

Le streghe, si racconta, furono prese e torturate con confessioni strappate a forza.
Anche il famigerato “ius primae noctis” imposto dal feudatario alle giovani donne del contado che volevano ottenere il permesso di sposare il loro amato, è qui ben rappresentato.

La guida che mi accompagna verso la torre carceraria, racconta di una fattucchiera, tal “comare Rosa” che viveva proprio alle pendici della rocca.

Pare riuscisse a guarire strane ecchimosi sulla pelle di giovani ragazzi chiedendo in cambio sacchi di grano.

Probabilmente nulla avrebbe potuto, secoli prima, contro le pestilenze che in epoche remote giungevano dalla piana abbandonata e impaludata, conseguenza di numerose incursioni saracene e il diffondersi della malaria.

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giovedì 25 aprile 2013

Un miracolo della Resistenza


Un avvenimento della resistenza teramana rievocato dallo storico Giovanni Di Giannatale, studioso della spiritualità del santo dei giovani.


Il 25 aprile è una data patrimonio di tutti, ancor più per l’Abruzzo teramano che ha vissuto con dolore, tra il 1941 e il ‘44, innumerevoli stragi di civili inermi.

La festa della Liberazione è un appuntamento di condivisione dei valori della democrazia al di là delle ideologie perché il fascismo e l’antifascismo - come dice lo scrittore Marcello Veneziani - sono morti insieme.

Grazie al professore Giovanni Di Giannatale conosciuto storico teramano e studioso della spiritualità passionista, rievochiamo un episodio che fa scoprire una Resistenza più nascosta e umile, non riconducibile a parti politiche ma animata dai valori della solidarietà.
Una storia in odore di miracolo per il santo tanto amato dai giovani!

Verso la fine del maggio 1940 – racconta Di Giannatale – prima che l’Italia dichiarasse guerra all’Inghilterra e alla Francia, si presentarono nel ritiro
dei Passionisti di Isola, l’Ispettore della Polizia generale di Teramo, Roberto Falcone, il Questore, Innocenzo Aloisi, e funzionari della Prefettura, per chiedere
spazi adatti ad ospitare internati politici ebrei e successivamente cinesi.

I deportati ebbero come cappellano Padre Antonio Tchang Chan - I, dei Minori conventuali, inviato dalla Santa Sede nel maggio del ‘41 per assistere spiritualmente dei prigionieri di guerra.
Grazie all’opera del religioso si convertirono al cattolicesimo tre ebrei e ottantadue cinesi, quaranta dei quali battezzati solennemente il 4/08/1941 nel Santuario di S. Gabriele.

Padre Antonio continuò il suo apostolato, sostenuto anche dai passionisti, che apprezzavano le sue iniziative religiose e umanitarie.
Il clima di serenità che regnava nel ritiro, pur sotto la sorveglianza dei Carabinieri, fu interrotto in occasione dell’armistizio dell’8 settembre dal generale Badoglio e dagli Alleati, armistizio che segnò il passaggio italiano agli anglo-americani, contro la Germania.

Molti prigionieri inglesi, fuggiti dai campi di concentramento della provincia, giunsero nella Valle Siciliana, a Tossicia, Colledara e Isola, chiedendo
aiuto ai Passionisti.
Per circa un mese, il religioso aiutò molti di loro senza che i tedeschi si accorgessero di nulla.
La delazione di qualcuno fornì informazioni ai militari che lo arrestarono nel novembre del 1943.

La sentenza di morte fu emessa il 3 giugno 1944.

Quando l’uomo fu davanti al plotone di esecuzione, nel cortile del campo di concentramento di Avezzano, alcuni aerei inglesi iniziarono a bombardare, costringendo i militari a scappare di fronte alle bombe che piovevano dal cielo. Padre Tchang, che, rassegnato, aveva raccomandato l’anima a Dio, approfittò della
confusione e fuggì.

Egli attribuì la salvezza ad una grazia di San Gabriele, che aveva pregato ardentemente davanti al plotone di esecuzione.
Lo raccontò egli stesso ai passionisti quando, nell’estate del 1944, tornò nel Santuario per ringraziare il santo che gli aveva salvato la vita e che – aggiungeva pieno di devota gratitudine – aveva operato per suscitare la conversione di ebrei e cinesi.

Dal volume San Gabriele dell’Addolorata. Studi e ricerche [ cap. XII, pr. 11°] in corso di stampa.



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mercoledì 24 aprile 2013

Sergio Scacchia, blogger di Paesaggio Teramano

Il mio lavoro ufficiale è a uno sportello dell’Agenzia delle Entrate.
In burocratese sono un funzionario tributario.
Per i contribuenti sono “lu ragioniere Scacchia”.

In realtà altro non sono che uno di quelli che in qualche maniera costringono a pagare le tasse in un paese dove gli odiosi balzelli servono a coprire le spese di un migliaio di politicanti che si arricchiscono a spese del popolo.

Sarei frustrato se non avessi l’altro mio lavoro, quello che non mi dà soldi ma forse solo un pizzico di notorietà.
Io, amici cari, raccolgo storie in giro per la nostra terra, racconto di chi vive il territorio, interpreto vicende anche scattando una foto.

Poi metto tutto nel blog oltre che nei libri e nelle riviste.
È come se la mattina aprissi una bottega artigiana cercando di realizzare un libro perfetto, una istantanea indimenticabile.
La madre di tutte le storie.
Non sono assolutamente uno storico anche se qualcuno dei miei lettori lo crede fortemente.

Uno di essi, un certo Giacomo, mentre sorseggiavo un caffè al Grand’Italia di Teramo, mi chiamò professore e mi fece i complimenti per i miei studi di storia perché, disse, un passo alla volta tornando indietro nel tempo riusciamo a capire qualcosa del presente.
Mi vergognai a dirgli che non avevo trascorso più di un ora in totale dentro una biblioteca in cerca di notizie storiche.

Io racconto storie, entro nell’ambiente che ho davanti agli occhi, lo descrivo con tutto l’amore che provo e ci metto dentro l’esistenza di qualcuno.
Poi scatto foto con la mia Nikon.
Tutto qui.

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martedì 23 aprile 2013

L’eterna guerra tra l’uomo e il lupo

Il sogno degli amanti della fotografia naturalistica, in montagna, è quello di immortalare con la macchina fotografica, durante una passeggiata, un lupo.
Eppure il tempo dell’odio tra l’uomo e la bestia sembra non finire mai.

Ogni stagione estiva si ripropone, puntuale, il problema dell’avvelenamento di uno di questi esemplari nel parco Nazionale d’Abruzzo o nel nostro.
Eppure la notizia passa in sordina.

Chissà perché quando, a essere avvelenati sono gli orsi, l’evento delittuoso è riportato in tutte le agenzie non solo d’Italia, facendo inorridire tutti gli amanti della natura, mentre se muoiono lupi per mano dell’uomo, nessuno o quasi se ne cura.

Ricordo che anni fa si paventava la terribile notizia della probabile estinzione dell’animale che un tempo era visto come l’assassino delle greggi.
Allora si allertarono tutte le associazioni ambientaliste, in primis il WWF e, nacque l’operazione “San Francesco”, chiamata così per la nota vicenda del poverello di Assisi che riuscì a far diventare buono un uomo che era definito cattivo tanto da essere soprannominato “il lupo”.

La mobilitazione riuscì a salvaguardare vari branchi di lupi, tanto che oggi se ne censiscono oltre 800 esemplari in Italia dall’arco alpino fino agli Appennini.
Oggi, la storia si rinnova.

Non corre più buon sangue tra lupo e uomo.
Gli occhi color ambra di questo predatore dei boschi tornano a essere terrificanti.
La favola del lupo cattivo torna a popolare il sonno agitato dei bambini ma anche dei grandi.

Sembra assurdo che una società evoluta come la nostra, con tutti i problemi più importanti che si trova ad affrontare in campo economico, etico, giuridico, ambientale e chi più ne ha più ne metta, consideri ancora oggi il lupo, un “problema” prendendo a pretesto l’uccisione di qualche pecora che sarebbe facilmente risolvibile con adeguati e tempestivi risarcimenti.

Gli allevatori trovano pecore sgozzate e, senza pensare all’opera di cani abbandonati o randagi rinselvatichiti, danno colpa ai lupi e seminano polpette avvelenate.

Un roccioso pronipote di uno dei primi pastori dell’ottocento teramano, Mario, uno degli ultimi che rientravano, anni fa, ancora ogni sera dal pascolo con pecore e cani abruzzesi al seguito, mi raccontava poco prima del ferragosto a Valle Castellana, che l’occhio del pastore che oggi magari è macedone è sempre piantato all’orizzonte per paura dei lupi.

Quando questi predatori, negli anni ’70, scannarono quaranta pecore del gregge, chiese un risarcimento per gli ingenti danni subiti.
E’ ancora in attesa!

“In Abruzzo un tempo c’erano due pastori su tre persone.
Tutti eravamo orgogliosi di esserlo”.
Poi, mi racconta l’incredibile storia del “luparo”, un uomo che viveva a est di Collegrato di Valle Castellana, nel paese, oggi scomparso, di Valleppiara, ai margini di un bosco rigoglioso di faggi, aceri e tassi.

Il borgo era lontano dalle strade di comunicazione, nascosto tra i boschi e difeso da dirupi scoscesi.

Qui i banditi, al sicuro, progettavano le loro malefatte.
 A seconda che fossero perseguitati con maggior vigore nel Regno o nello Stato Ecclesiastico, essi si spostavano dall’una all’altra parte datosi che i confini attraversavano i monti della Laga.
Era un centro importante dove si svolgeva la più grande fiera di bestiame dei dintorni.

L’antichissima chiesa e le sue case aggrumate furono distrutte nel 1649, insieme all’abitato di Basto, Fornisco e Brandisco quando, per stanare la terribile masnada del brigante Bartolomeo Vinelli detto “Il Martello”, non fu trovato di meglio che distruggere dalle fondamenta vari luoghi ricchi di storia.

Tutto ciò che poteva essere conservato, insieme agli abitanti superstiti, fu trasportato a Collegrato.
Qui era nato il più grande dei “lupari” gli specialisti della caccia al lupo.

Era uno degli epigoni tra i cacciatori che in passato raccoglievano grande popolarità.
L’uomo era in grado di imitare il verso del lupo alla perfezione attirando gli animali in imboscate letali.

Il luparo viveva delle ricompense della gente, portando in paese le teste mozzate.

Erano i primi anni del ‘900.
Il lupo era un nemico, azzannava le bestie da lavoro, strappando loro bocconi di carne.

Alle soglie del tremila, il lupo è ancora il nemico.
Termina con amarezza e con aria sibillina il buon Mario:
“Scrivi che i lupi sono ormai rari nelle nostre montagne.
Oggi, esistono però animali più selvaggi: gli uomini, quelli che uccidono la pastorizia con divieti e carte bollate”.

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lunedì 22 aprile 2013

Il colore della natura: visita a Castel Cerreto

I finestrini dell’automobile incorniciano un paesaggio placido e tipico di alta collina, fatto di linee orizzontali parallele blu e verdi.
Il silenzio raggiunge una dimensione concreta quasi da poterlo toccare.
Basta spegnere il motore, scendere dall’auto, fare pochi passi a piedi oltre il margine dell’asfalto per catapultarsi in un mondo diverso e ascoltare le voci di quel silenzio.

Il primo suono che accoglie il visitatore nella riserva regionale di Castel Cerreto a Penna S.Andrea, arriva dal torrente e dallo stagno artificiale, chiuso in parte dalla vegetazione, ambienti dove dimorano tritoni, macroinvertebrati, numerosi insetti alati, creature quasi invisibili ma stupende nella loro fragilità.

La riproduzione di questi luoghi affascinanti e pieni di vita, permette di vedere un ambiente ormai raro, viste le violenze dell’uomo che invade ovunque la terra per costruire case.

Le ninfee sono il luogo del riposo per le rane, i coleotteri e le libellule.

Poi, di là della zona umida, si aggiunge lo stormire del bosco.
Tra alberi che paiono messi lì a rappresentare la verticalità del mondo, ricchi di vitalità e pieni di volatili, si trovano anche vecchi tronchi morti e marcescenti, rifugi sicuri per insetti come cervi volanti o le api solitarie, che hanno bisogno di legno fradicio per i loro stadi larvali.

I funghi, i muschi e i licheni rendono il tronco morbido così da permettere l’insediamento di millepiedi, ragni e formiche.
 Molti predatori che si cibano di questi animali, tra cui i picchi, chiudono la catena alimentare.

Sopra la testa, appena visibile, il cielo pare un’ autentica pista blu.
La presenza umana sembra più lontana di quello che effettivamente è, finché il silenzio solenne della natura non è rotto dal canto degli uccelli.
Tutto sembra immobile ma all’istante tutto diventa movimento, tra alberi che danzano al vento, uccelli che si alzano in volo, canneti che frullano come impazziti per la brezza.
Percorrere i facili e brevi sentieri di questa minuscola riserva regionale è un privilegio che si ottiene facilmente.

Basta raggiungere la frazione Pilone di Penna Sant’Andrea, pochi chilometri da Teramo e da Val Vomano, mezz’ora dalla A14 sulla statale 81.
Sono percorsi di poco più di un chilometro fruibili da tutti, dotati di aree picnic, accurata tabellonistica di piante e animali, aule di studio per educazione ambientale con botanici e entomologi, workshop teorici e pratici per foto naturalistiche, servizio Foresteria e punti di osservazione birdwatching per appassionati.

I minuscoli tracciati portano a scoprire anche un’area faunistica dedicata al capriolo che si affaccia su campi coltivati con uliveti, vigneti e pascoli.

Il sentiero lungo porta, invece, in poco più di cinque chilometri a scoprire il vecchio tracciato che univa Penna e le frazioni Trinità e Capsano con il bosco oggi protetto, scoprendo il “fosso della Scarpa”, ricco di piante di liquerizia e scorci indimenticabili del Gran Sasso, dal monte Camicia incombente su Castelli, fino al Paretone del Corno Grande e i monti della Laga.

La visita alla riserva è un gradito ritorno alla natura in un insieme di micro ambienti riflettenti l’ordine e le regole della “vita naturale”.
E’ l’occasione sempre più rara di osservare i cicli naturali delle specie, toccare quasi la trasformazione della materia, comprendere le relazioni, le dipendenze tra gli organismi viventi e non, per capire come le varie forme di vita si autoregolino per utilizzare al meglio spazi e risorse.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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domenica 21 aprile 2013

L’antica chiesa di San Nicola a Cavuccio

(Grazie per la collaborazione  e le foto al professor Lucio De Marcellis)

Il silenzio della campagna riempie le orecchie.
Il canto degli uccelli, una foglia che si stacca da un ramo e scivola tra quelle ancora attaccate all'albero, il vento che sussurra tra gli olivi.
Davanti ai miei occhi l’antica chiesa di San Nicola.

Di là del colle il gruppetto di case del borgo di
Cavuccio.

Per secoli, benché minuscolo, punto di ritrovo per mercanti e viaggiatori che, attraverso i monti, dovevano raggiungere le terre marchigiane.
 Qualcuno ipotizza che qui esisteva un monastero, distrutto e sepolto in epoca remota.
Altri giurano che la Parrocchiale sia stata costruita sui resti di un’antica chiesa dell’anno mille.

Di sicuro sono stati rinvenuti ruderi di un antico acquedotto romano.
Esternamente, sulla porta laterale, un architrave in pietra presenta incisioni misteriose di origine sumerica.
Gli abitanti del luogo non sanno come siano arrivate lì.

La vetusta chiesetta risalente al XV secolo, posizionata nella parte estrema dell’abitato, restaurata poco tempo fa grazie ad un contributo regionale, sembra nata come atto di ringraziamento.

Si favoleggia di una furiosa battaglia svoltasi tra i contadini e temibili briganti.
Lo scontro volse a favore dei locali che sconfissero il gruppo degli invasori, erigendo questo edificio sacro come voto a Dio per il pericolo scampato.

I paesi venivano costruiti su dei colli proprio per difendersi dalle razzie di questi malviventi.
Basti pensare ad altri villaggi limitrofi come Villa Ripa, Frondarola, Spiano o Rocciano.

Le famigerate bande capitanate dal mitico Santuccio di Froscia e dal feroce Titta Colranieri compivano le più nere malefatte, mettendo tutto a ferro e fuoco.

Questa ridente frazione di poche dimore raggruppate e racchiuse fra colline verdi, posizionata su di un colle a belvedere, che dista sette chilometri da Teramo, è semplicemente deliziosa.

Pochi abitanti, tutti innamorati della loro terra.
La mancanza di un piano regolatore non ha permesso, negli ultimi anni, l’edificazione di nuove abitazioni e questa è stata una vera fortuna.

Sembrano antichissime le origini di Cavuccio. Resti di epoca romana sono visibili in contrada “Malle” che, insieme a quella denominata della “Taverna”, “Collepiano” e “Piano Piccolo”, rappresentano la parte del paese con il più alto numero di abitanti.
Il villaggio è citato già nel 1007 quando esisteva un castello a Piano Piccolo, poi donato al Vescovo Pietro I.

Aggregata vi era anche Villa Ripa denominata Riparattieri che, secondo vecchi censimenti risalenti al 1931, divenne poi frazione a sé stante.

Secondo un bollettino di quegli anni, Cavuccio contava oltre 500 abitanti con circa 114 famiglie.
Oggi le anime sono molto meno.

Il piccolo nucleo, nella sua atmosfera raccolta, ha conservato la sua vocazione agricola anche se molti lavorano a Teramo.

La passeggiata volge al termine.
Alcuni alberi sulla strada mostrano piccole mele.
Frutto proibito dell’Eden o pomo di Paride, nell’immagine tramandata dagli antichi, la mela è “mala orculos”, il cibo degli Inferi.
Ma qui a Cavuccio è tutto paradisiaco.



Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".

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sabato 20 aprile 2013

La Vergine di Moscufo: Santa Maria del Lago

L’ometto distinto dalla chioma candida rinfodera il paio di forbici in tasca, prende in mano la sua agenda telefonica e compone un numero.
I due spilli appuntati sul camice raccontano di anni e anni trascorsi a cucire abiti.
L’umile artigiano m’invia con risolutezza a un chilometro fuori il paese, dove mi attendono le suore della comunità “Emmanuele” del Rinnovamento dello Spirito Santo.

Sono queste piccole donne, dedite alla preghiera e al duro lavoro, a custodire l’antica chiesa di Santa Maria del Lago un gioiello senza tempo dell’arte sacra medioevale abruzzese.
Un tempio che permette un vero e proprio viaggio nell’arte di tre secoli della scultura, architettura e pittura della nostra regione.

Moscufo è quello che si potrebbe definire un paese ameno tra le ridenti colline pescaresi trapuntate di oliveti e vigneti.
Certo, molto è cambiato da quando, intorno alla metà degli anni ’60 la zona da povero territorio di stentata agricoltura, mutò in distretto industriale nel fondo valle.

Ma l’arte del far vino e olio da qui e fino a Loreto Aprutino non si è persa, tramandandosi di padre in figlio.

Due donne minute in tonaca sono ad attendermi all’imbocco del piccolo cimitero.
Qui, un tempo insisteva un monastero sorto come primitiva costruzione del secolo IX e poi ristrutturato nel trecento con le caratteristiche architettoniche e scultoree delle costruzioni benedettine.

Si potrebbe restare delusi davanti al portale della splendida chiesa.
Ci si potrebbe chiedere, con genuina semplicità, che fine abbia fatto lo specchio d’acqua mancante.
S’incarica una delle due sorelle a spiegare ad altri turisti appena giunti sul luogo, che per “lucus”s’intende un sito immerso in una fitta vegetazione boschiva.

È affascinante la presenza di una grande vasca battesimale in travertino posta nel prato adiacente all’ingresso della chiesa.
Tutto intorno, diversi anni fa, contadini intenti ai lavori nei campi rinvennero a colpi di zappa, un pregiato pavimento romano e numerosi reperti antichi.

Alzo gli occhi e sono attratto dalla finestra circolare che sovrasta il portale, dalle pietre, rigorosamente originali, scolpite intorno alla facciata principale.
La fascia lapidea è graziosamente ornata con rilievi di rosette, grappoli d’uva, teste di aquile, Agnus Dei.
Trovo singolari coincidenze con il portale di San Clemente al Vomano.

Scivoliamo quasi, in religioso silenzio, all’interno della chiesa e, in mezzo alle tre navate, la mia mente visionaria disegna subito traiettorie di passi, costruisce personaggi in saio intenti all’”Ora media”, inventa storie di antichi pellegrini assorti in preghiera.

L’insieme è suggestivo, gli occhi si abituano alla penombra, riesco a vedere bene le colonne sormontate da pittoreschi capitelli, ognuno diverso dall’altro.
Prevalgono influenze bizantine e arabe con sacrifici di animali dalle teste appena sbozzate di montoni e leoni. Non mancano temi floreali di chiara ispirazione di altre epoche.

Ed ecco, improvviso, il vero gioiello di questo tempio sacro.
È un bellissimo ambone posto sul pilastro sinistro della navata mediana, scolpito mirabilmente nel 1159 da Nicodemo da Guardiagrele su commissione dell’abate Rainaldo già priore della stupenda abbazia casauriense di San Clemente.

Ricche di riferimenti biblici le decorazioni e le sculture dell’opera, tra i simboli degli Evangelisti: l’angelo e il leone di Matteo e Marco e l’aquila e il toro di Giovanni e Luca, San Giorgio che sconfigge il drago e scene bibliche tra Giona, il giovane Davide, Abramo e molti altri. Meraviglioso!

Di questo misterioso artista sappiamo poco.
Gli appassionati troveranno le identiche atmosfere di una precedente opera, forse anche più bella che è quella dell’ambone di Santa Maria in Valle Porclaneta di Rosciolo dell’Aquila.

La Pala della Vergine Maria, attribuita all’abruzzese Andrea De Litio di Lecce dei Marsi, trasporta di colpo al quattrocento.
L’artista è conosciuto per essere stato il mirabile realizzatore degli splendidi affreschi che decorano la tribuna della cattedrale di Atri, un altro gioiello da non perdere!

E’ la chicca finale, la classica ciliegina sulla torta, con la Vergine rappresentata Regina dei cieli in trono e il Bambino che benedice i fedeli.
Un piccolo uccello morde il dito del Bambino Gesù, quasi a significare la giocosa benevolenza di Dio sul popolo.
Gli sguardi di Madre e Figlio ipnotizzano.

E’ un peccato dover ripartire!
Ci attende la vicina Pianella con Santa Maria Maggiore, Cepagatti con un’imponente torre quadrata, Loreto Aprutino con il museo dell’Olio e la basilica di Santa Maria in Piano e, infine, Nocciano con il suo castello che domina il borgo antico.

Moscufo si raggiunge da Pescara passando per Cappelle sul Tavo e statali 151 o 602.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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venerdì 19 aprile 2013

L'antico "Stato di Roseto"

La Via dei Borghi raggiunge Valle San Giovanni e prosegue verso i monti della Laga
sul crinale dove intercettiamo l’antico tratturo del Colle dell’Asino, per San Giorgio e i pascoli di Piano Roseto

L’aria è pulita.
Il vento muggisce rabbioso.
Il quadro d’insieme pittoresco tra abeti e ciuffi fioriti.

Il forestale è di poche parole: la ruota della mia auto non deve toccare l’erba del prato. Inutile dirgli che non mi sognerei mai di fare una cosa del genere.

Da anni custode dei boschi dei monti della Laga, è abituato a ragionare coi secoli che si portano dietro gli alberi di queste foreste.

L’erta di abeti sta lì da sempre, panorama immutato nel tempo.
L’uomo è capace di controllare se nel tronco degli alberi c’è qualche cerchio in più, se in un incavo si è nascosto uno scoiattolo o se l’erba della distesa di Piano Roseto sia stata calpestata impunemente da qualcosa di diverso dei zoccoli di un cavallo.

Se chiudi gli occhi e poi li riapri fissi sul manto verde che porta ai resti della rocca a picco sulla valle del Vomano, potresti anche credere di essere in una sorta di piccola Svizzera.

Il verde ricco pare rasato da poco ma è merito, secondo l’uomo in uniforme grigio topo, delle mucche e dei cavalli che qui pascolano per molti mesi l’anno.

La loro bocca e il ruminare a palato disteso delle vacche fanno la differenza.
 Le bestie se ne intendono.
Scelgono le erbette migliori, dalle foglie turgide.

“Bisognerebbe aiutare quegli allevatori di montagna che continuano a produrre formaggi e latte da mucche e aborrono i mangimi – dice il guardiano dei boschi – dovrebbero dare un riconoscimento ufficiale della qualità altrove perduta.
Perché la scomparsa degli alpeggi è un dramma per l’economia nazionale!”.

Qui ogni anno in estate si svolge la grande fiera degli ovini, la mostra della pastorizia.
E’ un lembo di territorio tra i più belli della provincia di Teramo.

Un triangolo isoscele con tre vertici che coincidono con la cima del Monte Gorzano a ovest dominante l’altopiano di

Cesacastina, il fiume Tordino a nord che delimita il territorio tra Cortino e Crognaleto e il fiume Vomano a sud.

Era lo “Stato della montagna di Roseto” con i suoi confini del Colle Cagnana tra le località di San Giorgio, Casagreca e Caiano.
Una possente rocca su questo altopiano difendeva la libertà delle popolazioni.

Dai suoi resti appaiono il Colle della Pietra di 1683 metri di altezza, il Monte della Palomba e il piccolo Bilanciere, sopra Fonte Spugna, così chiamato per la sua posizione baricentrica tra il Gran Sasso e la Laga.
 Chissà quanti teramani ignorano questi fantastici luoghi così vicini al capoluogo.

La temibile “Rocca Roseto”, sarebbe piena di antichi passaggi segreti, botole con lance acuminate e cunicoli che discendono a valle.

Fu proprio intorno al perimetro delle mura che un mio amico di Teramo, rinvenne un’antica daga acuminata.
E fu ancora qui che altri trovarono degli stiletti utilizzati dai briganti che transitavano nell’immenso pianoro.

Fra i reperti tornati alla luce nel corso degli anni, pare ci siano anche mattonelle votive con disegni di leoni ruggenti, fiere con artigli e fauci spalancate che simboleggiavano quanto terribile sia l’aldilà e il passaggio dalla vita alla morte.

Il luogo evoca anche storie di streghe.
Il grande scrittore Guido Piovene, autore quasi sessant’anni fa, di “Viaggio in Italia”, presentava queste terribili figure femminili, dotate “di piedi palmati come anitra, cavalcatura, cavaliere servente ed amante concesso ad ognuna da Satana, che giungevano in volo intorno ad un antico noce.
Col sangue tratto dalla mammella sinistra, ognuna facea voto di odio, adulterio, maleficio e omicidio, almeno una volta al mese”.

Un racconto di aurea gotica che prevedeva la presenza del diavolo in forma di caprone a promettere beni mondani a chi lo assecondasse nei suoi progetti malefici.

A pochi chilometri ci si può immergere nelle storie incredibili tramandate nei vari insediamenti di questo acrocoro verde di pascoli e ricco di acque che forma il distretto di Crognaleto.

A Figliola, ad Ajello, si raccontano storie di donne indemoniate, a San Giorgio, oltre mille metri di altitudine, c’è la misteriosa “ara delle schiazze” su cui si credeva danzassero, leggiadre, le fate.

Non lontano, su di un crinale, dal tempio dedicato al santo che sconfisse il dragone del Male, fino a pochi anni fa, rimbombavano i rintocchi della campana fusa sul sagrato, a ricordare il miracolo dei muli che s’inchinarono al passaggio del condottiero armato da Dio.

Di vero c’è la storia millenaria che ha visto il passaggio delle popolazioni dei Pretuzi, dei Romani dell’imperatore Augusto, dei barbari Goti e Longobardi, dei vari Ducati come Spoleto e Tuscia.
Luoghi che hanno sperimentato l’epopea carolingia e normanna, che hanno subito il domino degli Acquaviva di Atri, di Federico II di Svevia, del Re Manfredi.


Escursione
Nel cuore dell’abetina di Cortino

L’abete bianco un tempo rivestiva una buona fetta del versante orientale della Laga.
Oggi è quasi scomparso sotto i tagli improvvidi che si perpetrano nel bosco Martese.

Questa piccola abetina che si erge sopra il paese di Cortino è da preservare assolutamente.
Non lontano c’è da visitare il suggestivo borgo di Altovia, un tempo fantasma, oggi in ristrutturazione.

La passeggiata è facile ma qualche tratto dopo quello iniziale ha bisogno di massima attenzione.
Il dislivello è di circa 200 metri e il tempo occorrente è di un ora abbondante.
Raggiungere fuori l’abitato di Cortino l’inizio della sterrata per Fonte Spugna.

Si può salire in auto, costeggiando l’area faunistica del capriolo e arrivando al piazzale a 1180 metri di altezza (circa un chilometro dalla strada asfaltata per Crognaleto).

A piedi seguire il sentiero che inizia accanto alla fonte e s’inoltra a mezza costa nella Abetina.
Il percorso è indicato da segnavia bianco rossi e da antichi segni arancioni.
Costeggia il recinto dell’area faunistica e sale a svolte, lasciando a destra una cascatella.

Dove il percorso pianeggia lasciare i segni arancioni che continuano a sinistra e scendere per pochi metri a destra fino a una piccola fonte.
Un ultimo tratto a mezza costa porta a una carrareccia che si segue verso destra in discesa, arrivando sui pascoli dei Prati di Lame a 1365 metri.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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