Cerca nel blog o nel web o nei siti della PacotVideo

sabato 31 gennaio 2015

... E venne in mezzo a noi!

È bello, in occasione del Natale, riscoprire le rappresentazioni artistiche della Nascita di Gesù in provincia.
In verità le opere sulla Natività, nel teramano, si contano davvero sulla punta delle dita.
Sono tante le Madonne con Bimbo sia in pittura sia in scultura o in legno ma dipinti che raccontano la scena del presepe, qui da noi sono rari.

In un vecchio articolo del nostro maggiore esperto di arte, il professor Giovanni Corrieri, s’individuarono alcune Natività in forme diverse dalla pittura murale, come le espressioni artistiche della nascita del Salvatore su piattini di terracotta dipinti, oggi visibile nel Museo delle Ceramiche di Castelli e rinvenuti nell'ultima dimora del grande artista Aurelio Grue ad Atri, intorno agli anni trenta.

Bisogna render conto anche di una grande e famosa opera di oreficeria artistica: il Paliotto, nel Duomo di Teramo.

Tra le formelle argentee del grande Nicola da Guardiagrele, una di esse regala un’inedita Nascita nell'Adorazione, tra pastori in zampogna e cornamusa, illuminati dal Sole nascente.

Con quest’opera siamo naturalmente al top dell’arte.
Il Paliotto rappresenta un vanto per la nostra città.

Com'è logico, bisogna iniziare un piccolo tour delle nostre belle chiese, per scoprire tesori d’arte che raccontano, in pennellate mirabili, il momento dell’Incarnazione del Cristo.

Il più antico dipinto sulla nascita di Gesù lo ammiriamo, se riusciamo a trovare la chiave d’ingresso, nella bella chiesa campestre di Santa Maria di Ronzano, dedicata all'Annunziata, “Maria Apparens” di cui vedete la foto gentilmente concessa dall'amico Giovanni Lattanzi.

Nell'opera, la Vergine Maria ha un ruolo di primo piano.

È la protagonista indiscussa di un ciclo murale in cui, all'Incarnazione, posta sulla finestra absidale in modo da catturare il fascio di luce esterna e simboleggiare il momento topico per le nostre vite, segue il racconto della Visitazione e la conseguente Natività.

Nella Rappresentazione, esce un pochino con le “ossa rotte”, ridimensionato, il povero San Giuseppe, ubicato piccolo nel margine sinistro della scena, come un personaggio secondario.

Altra importanza riveste, invece, la Vergine che troneggia con la corona sul capo.
Secondo il professor Corrieri, questa è la più antica pittura della Natività in terra d’Abruzzo che si può datare a dopo la metà del 1100.

Tra le poche scene di Natività artisticamente notevoli non possiamo dimenticare quella più bella del ‘400, opera del grande Andrea Delitio, custodita nella bellissima Cattedrale di Atri, nel cuore del presbiterio e nel ciclo dedicato alla “Vita di Maria”.

È una scena classica del presepe di Greccio, concepito da San Francesco d’Assisi con la grotta, il bue e l’asinello e il Bambino umilmente posto a terra. Giuseppe, a destra, è appisolato quasi fosse estraneo al grande avvenimento, mentre la Madonna è in posizione orante.

Dietro al giaciglio improvvisato, villaggi turriti su dei colli e folla di pastori e contadini che corre all'incontro con il Divino Bimbo.

Oltre mezzo secolo dopo, nella prima metà del ‘500, nel piccolo ma delizioso borgo di Tortoreto Alto, un pittore del nord, tale Jacopo Bonfini, affresca la minuscola chiesa di Santa Maria della Misericordia e regala un’altra opera immortale, oggi restaurata.

Il Bambino è nudo, contrariamente al dipinto di Atri, dove si ammira fasciato, gli angeli volteggiano felici.
I Magi in corteo appaiono in lontananza mentre scendono dal dirupo soprastante.


L’ambiente circostante pare essere la pianura sottostante i monti della Laga, come se l’autore amasse particolarmente i luoghi meno conosciuti del teramano.
Questo particolare, però, non è stato mai oggetto di studi da parte di esperti dell’arte.


=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================

domenica 25 gennaio 2015

A Teramo le opere d'arte le nascondiamo!

I beni culturali ecclesiastici in Italia, eredità di popoli e millenni, costituiscono almeno i due terzi dell’intero patrimonio nazionale.
Non potrebbe essere altrimenti se guardiamo alle cifre: su 95 mila chiese, 30 mila di esse sono ai massimi livelli della storia, i santuari si avvicinano al numero duemila, i monasteri toccano le cinquecento unità, così come le abbazie.

Numeri impressionanti elaborati qualche tempo fa dal Censis.

La massima diffusione di “loca sacra” è nel centro nord.
E queste emergenze religiose, storiche e culturali non raccontano di un’unica civiltà come accade ad esempio all'Egitto o alla Grecia.

Da noi, le opere rappresentano infinite civiltà che si sono susseguite senza sosta, nel nostro territorio.

Sono partito da lontano per raccontarvi cosa di brutto accade in una città, la nostra Teramo, dove la cultura a volte viene negata alla sua naturale funzione che è quella di essere diffusa.

Alla non fruibilità di un mosaico pregiato come quello del Leone, chiuso all'interno di Palazzo Savini, si aggiunge un altro “delitto culturale”.

Pochi sanno, infatti, dell’esistenza di un’opera d’arte insigne, celata al popolo teramano e ai turisti che si avventurano fino in città.
Parliamo di un affresco sacro di notevole importanza documentaria e storica, non accessibile a cittadini e visitatori, quasi nascosta nell'ex convento di San Francesco, adiacente alla chiesa di S. Antonio, nel centro di Teramo.
I locali di proprietà demaniale, per molti anni occupati dall'Intendenza di Finanza, oggi sono utilizzati, guarda caso, dalla Soprintendenza Archeologica ai Monumenti. Questo è l’ente deputato alla salvaguardia dei Beni Culturali, quello cioè che tutela e favorisce le opere d’arte di cui sono proprietari unicamente i cittadini.

Si tratta di una lunetta dipinta, ubicata in un ex passaggio di comunicazione tra il chiostro e la chiesa, chiuso anteriormente al 1448 e decorato.
È un dipinto sacro, due finestre di bifore del Trecento che, in antica epoca, faceva parte del portico, lato nord del convento dei Padri Francescani.

Oggi questo luogo è usato per un ufficio, dopo che l’utilizzo per molti anni era stato di deposito materiali di risulta.

L’opera sarebbe stata realizzata da un monaco della seconda metà del ‘400 e rappresenta l’immagine della “Pietà”.
Il dipinto è solo uno di altri affreschi esistenti lungo il perimetro del portico, ma ha una peculiarità che lo rende ancor più importante.

Le due iscrizioni, in basso lateralmente, testimoniano la grande importanza devozionale: chi ammira e prega davanti all'opera può lucrare un’indulgenza antichissima.

Il testo latino, infatti, recita più o meno:
“San Gregorio e altri Sommi Pontefici e tutti coloro che, veramente pentiti e confessati, s’inginocchiano davanti all'immagine della Pietà e pregheranno, avranno ventimila e sette anni giorni di piena indulgenza e questo è confermato dal Papa Nicolò V, anno Domini 03.01.1448”.

L’altra scritta, alla base della lunetta, è una profonda preghiera al Santissimo appeso alla croce, incoronato di spine.
Si chiede di essere liberati dall'angelo del male che porta con sé il peccato.
Al Cristo abbeverato di fiele e aceto si chiede la liberazione dalle piaghe dell’anima.
L’incisione in latino, termina con l’eloquente frase: “Che la Tua morte sia la mia vita!”.

Al valore devozionale di questa bellissima catechesi muraria sul peccato e la misericordia di Dio, si aggiunge anche la pregevole rappresentazione.

Il Cristo esce dal sepolcro col cartello INRI, tra la Madonna in preghiera e San Francesco, munito di piccola croce, intento alla sua famosa preghiera al Crocifisso.

Attorno a Gesù ruotano, come in un unico filo narrativo, i simboli della Passione: la lancia, la pertica con la spugna, il flagello, le dita incrociate a scherno, la canna scettro, la scala e la tunica rossa coi dadi.

Ci sono anche delle incongruenze nell'opera che di certo non diminuiscono l’importanza ma che è interessante rimarcare:
San Giovanni Battista non è rappresentato come di consueto, vestito di pelli e con torso nudo, al contrario ha una tunica rossa e in mano un libro, così da poter essere scambiato per l’altro Giovanni, l’Evangelista.
Inoltre un qualcosa di incomprensibile la propone la figura di S. Antonio da Padova che, anziché il giglio, porta con se una palma, simbolo del martirio.

Infine, nella lunetta,l’autore attribuisce la famosa frase :”Ego sum lux mundi” al Padre anziché al Figlio!

=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================

sabato 24 gennaio 2015

Storie di vita lungo la valle sconosciuta del Fino!

Giuseppe lavorava come arrotino.
Girava con la sua mola l’Italia per diversi mesi l’anno.
Poi in estate tornava nella vallata per dare una mano nel periodo della raccolta.

Oggi vive nella campagna tra Montefino e Bisenti.
Il dolore di testa a novanta primavere, non sa cos'è.

Ha soltanto un po’ di tiroide ballerina e la dentiera che fatica a stare al posto suo.
Sul muro, incorniciato, c’è un vecchissimo depliant turistico di un’epoca che non c’è più.
L’invito è singolare:” visitate l’Aeropoli vallata del Fino attraverso il pianoro della città del silenzio”.

Il vecchio mostra una pubblicazione del Touring di oltre cinquanta anni fa, dove si legge: “Scendendo da Bisenti verso Castiglione, sulla sinistra, come nido feudale, le povere case di Montefino…”.
Il tempo pare essersi fermato in questo borgo immerso nel silenzio quasi sacrale, rustico e compatto con le sue case addossate su di una collina di calanchi, in pietra grigia, molte prive d’intonaco, ma comunque affascinanti a vedersi.
Sono aggrappate l’una all'altra e circondate da muraglioni di sostegno.

Bella la storia del nome che dal lusinghiero Montefiore, era passato a un orribile Montesecco, in ossequio al fatto che i calanchi rendevano difficili le colture in mezzo a terre argillose e secche.
Poi, nel 1865, in barba alla fisionomia aspra dei grossi banconi di roccia arenaria sui quali sorge l’abitato, il nome divenne, definitivamente, Montefino
Le vecchie abitazioni, si legge ancora:
“Disegnano contro il cielo, un profilo piuttosto ingrato, ingentilito solo da un campanile quadrato dalla punta assai svelta”.

L’anziano uomo ha un fremito quando mostra la foto della sua Enrichetta.
La donna è partita in cielo, quasi in silenzio, un paio di estati fa.
La foto la ritrae con l’immancabile gonna lunga a fiori con sopra il golfino color del cielo, i capelli raggruppati dietro la nuca con la forcina.

Curava l’orto, rammendava, cucinava manicaretti da Dio e a sera si godeva il tramonto seduta sulla sua amata sedia di vimini.
Per anni la donna ha lavorato alla produzione artigianale dei cesti in vimini.
Nella valle del Fino era una risorsa importante, insieme alla lavorazione dell’uncinetto e del ricamo in stoffa.
Ancora oggi le anziane del paese non hanno nulla da imparare da altre realtà più pubblicizzate come i tomboli di Pescocostanzo e i ricami di Canzano.
Manufatti di alto artigianato ormai introvabili o quasi.

Un'altra attività femminile era l’allevamento del baco da seta.
Una pratica questa che richiedeva manodopera esperta e assiduo lavoro di gruppo.
Tutti ricordano la figura di donna Rachele che, giunta a Montefino per assistere il fratello parroco, si mise all'opera insegnando i dettami di questa difficile arte a tutto il paese.

Scappo alla scoperta di Bisenti.

Nella Bibbia, amici miei, si legge che fu Noè, quello del Diluvio Universale e dell’arca, a inventare il vino e gli piacque a tal punto, che fu protagonista della prima sbronza nella storia dell’uomo.

Vallo a dire agli abitanti di Bisenti.

Da queste parti la produzione del vino Montonico è qualcosa di sacro, sin dai tempi più antichi.

Popolato già in età preromana, questo grande borgo alla destra del corso del fiume Fino, apparteneva nel XII secolo all'abbazia di Montecassino e per anni in questo territorio si sono succeduti gli Sforza, i Fallerio, gli Acquaviva, che hanno contribuito a rendere illustre la storia del paese.
C’è da non perdere l’antica torre medioevale, la splendida Casa Badiale dell’anno del Signore 1474, la Fonte Vecchia, il Loggiato di chiaro impianto medioevale, ma, soprattutto, la stupenda Santa Maria degli Angeli, fastosa basilica con il suo campanile di 40 metri, ricca di affreschi artistici, che custodisce una statua della Madonna, definita dagli esperti uno dei capolavori dell’arte sacra in Italia.
Bisenti ha anche il suo spicchio di mistero e leggenda.
Superato il ponte sul Fino, prima di giungere al centro, 50 metri dopo il bivio per Arsita, è visibile un’antica casa in pietra.

Gli abitanti giurano che quella era l’abitazione di Ponzio Pilato, ricordate il procuratore romano della Giudea, che condannò a morte Gesù e che s’inabissò per fuggire dagli sgherri dell’imperatore Vespasiano nel piccolo lago incastonato nei monti Sibillini?
Verità o leggenda?
Fatto è che in paese un rione è ancora oggi dedicato a Pilato, che nella casa ci sono antichissime cisterne romane con un pozzo che si dice sia collegato tramite una serie di cunicoli alla Fonte Vecchia e che anni addietro qualcuno ha ritrovato antiche monete molto simili ai sesterzi usati dai romani e, dicono, dal centurione amico di Pilato, che trafisse il cuore di Gesù, proveniente da una ricca famiglia di Lanciano.

Resta sempre difficile spiegare perché una valle tra le più affascinanti dell’entroterra teramano come quella solcata dal fiume Fino, sia così trascurata e sconosciuta.
Il fiume omonimo attraversa questo tortuoso pezzo d’Abruzzo, prima di unirsi all’abbraccio gorgogliante delle acque del Tavo.
La natura incontaminata, gli scorci incantevoli, la storia e tradizioni antichissime, le testimonianze di un passato glorioso, sono i valori aggiunti per una terra di colture e di vita contadina, zona di piccole proprietà e di onesto e quotidiano lavoro.
La valle del Fino è un susseguirsi di dolci colline, boschi, campi coltivati, sempre dominati dalla mole possente e aspra ma in qualche modo rassicurante, della dolomia del Gran Sasso.
Ancora oggi questo spicchio di provincia, è un mondo che ispira, spinge a confrontarsi con la grandiosità della natura e a interagire con essa.

Arsita è a pochi chilometri di distanza.

Pare vivere in una sorta di dolce arrendevolezza, popolata da gente tranquilla che sembra aver assimilato dentro la quiete dei vicoli.
La vita qui ha un diverso valore di esistenze urlate e portate oltre ogni limite.


Tutto intorno, le colline sono da quadro impressionista.
Lo scatto dell’amico Sergio Pancaldi, fotografo di razza, rende mirabilmente la dolcezza d’insieme.

Una descrizione del 1889 di Palmiro Premoli, recitava così:
“Le alture appaiono in tutta la loro maestosa imponenza.
A sera, quando l’astro maggiore è sceso dietro agli Abruzzi e sulle cime non isplende più che una fiamma porporina, sembra quasi di vedere i picchi delle rocce fondersi in un mare di fuoco” .

E’ sera, infatti, ed è ora di intrattenerci piacevolmente in gastronomia: maccheroni alla molinara, mazzarelle, tagliatelle e fave, agnello alla brace, contorni di verdure dell’orto.
Che bella la vita!


Come raggiungere la valle:

L'itinerario più panoramico parte dalla stazione climatica e soggiorno estivo al mare Adriatico di Silvi Marina, tra Teramo e Pescara. 
Si attraversa la panoramica strada statale 553 che porta alla città d'arte di Atri. 
Proseguendo lungo la provinciale si giunge a Villa Bozza e poi Castilenti. 
Lungo la S.S. 365 si giunge a Bisenti. 
Poi si prosegue per la testa della valle ad Arsita, dove partono bei sentieri escursionistici. 
Da Bisenti è anche facile raggiungere la valle del Vomano per scoprire Basciano e Penna S.Andrea. 

=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================

domenica 18 gennaio 2015

Il gioiello campestre di Santa Maria de Praedis

Il silenzio è avvolgente.
Il profumo delle colline boscose pare penetrare nei polmoni.

La passeggiata sul Colle Piadino, tra Pantaneto, Colle Caruno, Fonte del Latte, si snoda lungo la strada, ma di auto circolanti neanche l’ombra.


Qui è un susseguirsi di minuscoli agglomerati del suburbio teramano dei quali il più importante è Castagneto, il cui toponimo prometterebbe tanti alberi di castagno che oggi non ci sono più.
La storia ricorda l’avvenimento più importante, in piena dominazione spagnola, sul finire del XVII secolo.
A causa delle ciurmaglie dei briganti celebri come Santuccio da Froscia e Titta Colranieri, il borgo fu bruciato, insieme alla vicina Ioannella, da parte del capitano Gaspare Zunica.

Ho incontrato nel mio cammino solo un trattore con sopra un vecchio che non so perché ha sghignazzato evidentemente divertito, prima di scomparire dai miei occhi col suo cigolante mezzo, antico più del padrone.
Qua e là si aprono, improvvisamente, prati quasi tumefatti dalle ombre del primo pomeriggio e casolari dal tetto fumante.
Poi, in fondo alla valle, lo sguardo s’impossessa di una Teramo un tantino caliginosa mentre, tra un sipario e l’altro di nubi, compare la cresta del Gran Sasso e le montagne suddite intorno a corolla.

Tutto molto bello, tra colli con pochissime fasce di cemento che non inghiottiscono ancora le piccole cascine storiche e i campi coltivati.

A volte capita che il nostro piccolo e caotico mondo si fermi anche per un solo attimo.
È allora che la bellezza si svela e il sacro silenzio ti parla.
Le ginocchia traballano un pochino per la fatica, ma non mollo.

La chiesina campestre di Santa Maria de Praedis non è lontana.

In questi luoghi, che i teramani disertano, c’è più di una chiesa che vale la pena visitare: San Pietro ad Azzano in località Costumi o la famosa San Bartolomeo di Villa Popolo di Torricella.

Distante e di molto dalle grandi vie di traffico, questo luogo sacro di Santa Maria meriterebbe ben altra attenzione, quella che non le dà quasi nessuno.
Eppure possiede valori immensi sia religiosi sia archeologici, storici e perché no, ambientali di alta collina.

All'ultima curva un cane pastore si avvicina a brutto muso e per un attimo temo l’assalto rabbioso. All'improvviso, provvidenziale, si palesa un contadino di alta statura che sta risalendo il piccolo fosso verso il suo casolare.
Sembra Mauro Corona, canotta nera, bandana di ordinanza, capelli grigi che sicuramente cadrebbero sul volto se non fosse che appare incipiente la calvizie.
Dal ciglio della strada urla qualcosa d’incomprensibile ma la bestia pare aver capito perché si allontana subito dalla mia figura.

Ed eccomi finalmente davanti all'oggetto dei miei desideri.

Santa Maria è un piccolo tempio in stile romanico a tre navate, edificato nella notte dei tempi sui resti di una villa romana, dicono, anche se alcuni studiosi ipotizzano che qui ci fosse un sito dedicato alla dea Feronia.


In epoche ancora precedenti pare che l’antico insediamento fosse il “villaggio Praedis”, luogo molto frequentato sin dall'età del ferro.

Come dimenticare che qui furono rivenuti mirabili frammenti di ceramica del tempo dei Pretuzi, travertini o ancora rimasugli di statue romane e anche reperti medievali?
Sono affascinato nel guardare questo piccolo edificio sul ciglio della strada con il suo mini cimitero dall'inferriata del fianco destro.

Ho sempre creduto che l’arte sia l’ombra di Dio sulla terra.
Ricordo che più di una volta il grande e indimenticabile Giammario Sgattoni, mi parlò di quest’antico luogo denominato “Praedis”.
Con la sua voce baritonale e il suo largo sorriso, mi sorprendeva sempre con la sua immensa cultura.

Ora sono qui, ad ammirare questa che è una delle chiese più antiche del teramano, sorta nel secolo X, le cui pietre sembrano provenire dall'antico castello medievale che un tempo dominava la valle sopra Pantaneto!

Immagino cocci e pietrame sconvolti dai vomeri profondi.

Penso con dolore, a cosa possa essere accaduto a tanti reperti, statuine o altro, disseppelliti sui campi dinanzi casa e rivenduti forse per pochi soldi.
Butto l’occhio su alcune tombe del cimitero.

Una di esse ha la croce che ha perso il suo lato destro che penzola arrugginito e scricchiolante al vento.

Ripenso alla frase latina che trovai su di un piccolo cimitero in Alto Adige.
Mi stupii di questa locuzione:
“Hic est locus ubi mors gaudet succurrere vitae”,
che tradotta significa che questo era il luogo dove la morte gode di soccorrere la vita.
Un’amara riflessione sulla caducità delle cose.
Mi pare che fosse mutuata da una lapide sulla porta d’ingresso dell’Ospedale degli Incurabili a Napoli, prima che arrivasse il santo dottor Giuseppe Moscati a portare speranza ai poveri.

Meglio concentrarsi sulla chiesa che ha una storia sontuosa che pare partire dal 1153 quando il vescovo Guido II annesse ai beni teramani la piccola pieve.
Questo tempio ha visto la sua ultima ristrutturazione da parte della Soprintendenza ai Beni Architettonici nel 1977 e oggi si presenta in perfetto ordine.

Percorso stradale
Castagneto e la piccola chiesa si raggiungono facilmente percorrendo sei chilometri da Teramo attraverso la strada che porta verso Ascoli Piceno e deviando al bivio di Castagneto appena fuori il capoluogo teramano.

=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================


sabato 17 gennaio 2015

La fortezza borbonica di Civitella del Tronto: prodigio militare!

Qualcosa di prodigioso da visitare nella bellissima provincia di Teramo?

Certamente una tra le più imponenti opere di ingegneria militare dell’intera penisola:
la fortezza borbonica di Civitella del Tronto.

Si tratta di una roccaforte poggiata a nido d’aquila su di una cresta rocciosa, lunga poco più di mezzo chilometro e con larghezza media di quasi cinquanta metri, la cui costruzione fu iniziata nell'anno 1564, durante la dominazione spagnola e completata nel 1576.

Il baluardo prese il posto, come racconta un testo del civitellese Bruno Martella, di una precedente cinta muraria con cinque torri, opera della precedente dominazione aragonese, fortificazione del paese incastellato sotto.
Esisteva anche un precedente fortilizio di epoca angioina che cingeva la cittadella più in basso.

Civitella del Tronto, con la costruzione dell’attuale forte, era diventata l’autorevole e famosa sentinella invalicabile dei confini più a settentrione del Regno di Napoli, caposaldo di un territorio importante nelle economie nazionali.

Il baluardo di Civitella ha scritto pagine di enorme importanza storica sia per gli avvenimenti che per gli assetti politici dell’Italia e dell’Europa e per le prospettive che si aprirono nella realizzazione, in seguito, dell’Unità d’Italia.

Tra gli assedi subiti, da ricordare quelli dell’esercito francese e, soprattutto, l’ultimo, lunghissimo e sanguinoso, avvenuto durante la dominazione borbonica a opera dei piemontesi di Vittorio Emanuele II, assedio preludio di quella unità cui la fortezza cedette per ultima e solo il 20 marzo del 1861.

Alla fine del sanguinoso conflitto, il forte fu in parte distrutto.


Oggi, dopo il riuscitissimo restauro degli anni ’90, la fortezza offre veramente uno splendido viaggio nel tempo e nella storia, grazia anche al museo ubicato al suo interno.

Nei locali si conservano documenti, stampe, oggetti, plastici e armi degli anni di assedio.
Visitare il forte è veramente viaggiare nel tempo, tra piazze d’armi, corpi di guardia, carceri, furerie, resti del palazzo del Governatore e residenze degli ufficiali, oltre ad ammirare i solidi bastioni di difesa e un panorama da urlo.

Infatti nella parte alta c’è un colpo d’occhio fantastico:

- gli incombenti monti Gemelli con le gole del Salinello, paradiso naturale;
- la vicina e bellissima città di Ascoli Piceno;
- la collina del convento benedettino di Monte Santo, da dove iniziavano i territori dell’allora Stato Pontificio confine con il Regno di Napoli;
- la località di Villa Passo, antica zona doganale;
- il mare Adriatico, dopo la valle del fiume Vibrata.

Dal bastione più alto e dai camminamenti di ronda, si può ammirare anche l’incastellamento del paese vecchio con le sue caratteristiche e strette vie necessarie alla difesa contro le artiglierie nemiche.

Civitella del Tronto con la sua fortezza, merita sicuramente una visita!


Come arrivare:

Da Nord
Dall'autostrada Adriatica A14 direzione Ancona, seguire la drezione San Benedetto del Tronto - Ascoli Piceno, continuare sulla superstrada Ascoli-Mare RA11 fino all'uscita di Ascoli, proseguire lungo la SS 81 direzione Civitella del Tronto.

Da Sud
Dall'autostrada Adriatica A14 direzione Pescara, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, proseguire lungo la SS 81 direzione Civitella del Tronto.

Da Pescara
Percorrere la SS 16 in direzione di Chieti, continuare sull'autostrada A 14, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, proseguire lungo la SS 81 direzione Civitella del Tronto.

Da Chieti
Percorrere la SS 81, imboccare l'autostrada A 14, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, proseguire lungo la SS 81 direzione Civitella del Tronto.

=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================

domenica 4 gennaio 2015

Bastioni sulla storia: Il mito di Civitella del Tronto

Gli sposi, in tight nero lui, in candida veste di organza lei, con tanto di cappellone stile inglese Regina Madre.

Entrambi posano entusiasti e affranti dai mille preparativi alla cerimonia, davanti alle sontuose architetture della fortezza borbonica.



Attraversano le antiche vie di Civitella del Tronto come integrati in una set di un film di Spielberg, con dietro l’inevitabile codazzo di rumorosi invitati.
Quale migliore location di questo incantevole borgo medioevale per decretare il loro sì?

“Una terra dove il sole non muore mai dietro le montagne gemelle, arcigne a guatar severe …”
Così scriveva nell'anno Domini 1485 il dotto Padre Silvestri, strenuo indagatore delle nostre origini.
Si racconta che questo monaco benedettino, originario delle Marche, fosse giunto in questo villaggio abbarbicato su di un erto costone roccioso sui 600 metri, intorno al suo fortino, perché devoto alla marchesa di Toscana, quella Matilde di Canossa che l’iconografia storica presentava bellissima nella sua alterigia e di origini longobarde.

L’abate scriveva infuocati versi d’amore nei confronti di lei che chiamava “Duchessa” per non svelare il nome.

Si sa, le voci corrono e il religioso fu espulso dall'Ordine e interdetto a viaggiare all'interno dei territori dello Stato Pontificio.


Sentinella silente di un confine invalicabile del Regno della meridionale Napoli, centro di grande valenza strategica tra Ascoli e Teramo, dall'alto di Civitella si dominano tutte le vallate intorno.
Una manciata di case dalle pietre abbrunite, all'ombra dei bastioni immani di una fortezza che ha conosciuto fasti e rovine, storia e tradizioni.

Civitella è un paese dalle abitazioni digradanti in piani paralleli sotto un’imponente muraglia, aggrumato intorno al belvedere di Piazza Pepe.
Affacciati sul parapetto del muro in pietra, la montagna dei Fiori si staglia nitida nel cielo terso, più in là il Foltrone e in mezzo alle due vette il boscoso cuneo dell’orrida gola del Salinello, regno del mistero e delle vicende storiche del Re Manfredi e la sua rocca.

A meridione la spettacolare catena del Gran Sasso e, a seguire la dea Maiella, evidentemente ancora innamorata dell’aspra dolomia confinante.

In piazza, la cinquecentesca Parrocchiale di San Lorenzo addossata all'antica porta d’ingresso del borgo, attira i visitatori con la sua pietra civitellese con cui è costruita e il portale rinascimentale di elegante semplicità.


Ed è bello, aggirarsi per le antiche  e strette vie del borgo anche oggi che c’è mercato in piazza.
Un carosello di colori, di voci, di personaggi particolari che fatica di certo a sopravvivere ai nuovi modelli di distribuzione.
La frutta con le piramidi di mele, di arance, i carciofi che da una cesta mostrano solo la testa, una composizione di radicchi che esprimono tutta la loro freschezza, una cassetta di zucchini con il loro fiore.
Tutto è colore, anche la voce dell'ortolano che comunica la sua offerta.

Su di un vecchio banco si vende porchetta fumante, proveniente neanche a dirlo, da Campli e poi trippa all'ascolana fatta in casa, olive fritte con cremini; più in là dalla vetrina del banco del macellaio si vede un omone con una grande mannaia, tagliare, con perizia antica, bistecche da una bellissima costata.

Nei ristoranti le donne di cucina ammassano le proverbiali “ceppe”da condire col sugo di papera.

Ogni personaggio è un protagonista, qui non ci sono comparse e controfigure.
Ogni angolo dovrebbe essere fotografato, ogni individuo raccontato nei particolari.

Civitella del Tronto non è solo questo.
E’ la storia con la S maiuscola che, in mancanza di notizie certe, potrebbe risalire a un’epoca ancor prima del mille.

Gli storici non si pronunciano.
Per loro si parte dal IX secolo, periodo in cui nasce il fenomeno italico dell’arroccamento delle popolazioni rurali a difesa contro barbari e pirati.

Eventi storici fluidi modellati da mille cambiamenti e turbolenze nel mondo feudale dell’intero Abruzzo, fino al sopraggiungere della dominazione normanna.
Qui, un intreccio di leggende.

Una racconta dei natali dati dal villaggio al Papa Leone II, un'altra data anno Domini 1053, racconta della prigionia di Papa Leone IX da parte dei Normanni che lo avrebbero portato in ceppi e catene in una grande reggia a Benevento dove scontare un’ingiusta condanna.
Fu con il già citato Carlo I dì’Angiò che iniziò la valorizzazione della fortezza che, nei secoli seguenti, divenne famosa nel mondo per le sue caratteristiche difensive militari manifestando i segni di una tipologia costruttiva tipica di quei centri cui è demandata l’importante funzione di presidio perenne e tutela dell’assetto politico di un territorio.

Seguirono secoli di gloria, con assedi di mesi e mesi a questa fortezza quasi inespugnabile.
Cambi di poteri dinastici, viaggi attraverso governi del vice regno, occupazione francese, monarchia borbonica, brigantaggio e calamità varie, fino all'Unità d’Italia del marzo del 1861 quando il forte, baluardo contro le armi piemontesi, scrisse le ultime pagine di gloria.

Davanti agli occhi le auliche architetture della trecentesca Chiesa di San Francesco con la sua facciata romanica impreziosita da un rosone intagliato di rara bellezza.
L’anziano seduto sul muretto ride divertito e dice che il rosone non è farina del sacco dei civitellesi i quali, amanti del bello, lo rubarono agli odiati camplesi, trafugandolo dalla chiesa farnese dedicata al poverello d’Assisi.

Ricordo che questa storia mi fu narrata anni fa dal parroco di Campli don Antonio Mazzitti che si diceva convinto che altre opere alloggiate nella città fortezza provenissero proprio dal borgo d’arte camplese.

Il viaggio nella storia e nel presente di questo borgo non può prescindere dal convento francescano della Madonna dei Lumi, in una collinetta vicina, dove un’antica leggenda racconta un fatto misterioso: amici conversavano quando di colpo interruppero le loro chiacchiere, abbagliati da tante luci e fiammelle che, arrivando dal fondo della valle, iniziarono a danzare ordinatamente intorno a loro per poi sparire.


Da quel momento questo spettacolo si replicò più volte fino al 1663, ultimo spettatore un monsignore che cadde, ginocchia a terra, giurando di essere stato sfiorato dal soffio mistico della Vergine.

Ecco perché il Convento è dedicato alla Madonna dei Lumi o della Lumera dispensatrice di tanti miracoli e guarigioni.
Ecco perché la Vergine ancora oggi veglia sul paese fortezza.


COME ARRIVARE A CIVITELLA DEL TRONTO:

- A24 RM-TE uscita Teramo/ proseguire lungo la SS 81 direzione Campovalano/ Civitella del Tronto 
- da Napoli: A1 NA-RM uscita Cassino/ proseguire in direzione Sora/ Avezzano/ A25 direzione L'Aquila-Teramo/ A24 uscita Teramo/poi strada per Campli Civitella del Tronto, Ascoli Piceno 

=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================

sabato 3 gennaio 2015

La chiesa dedicata alla mamma della Vergine Maria a Teramo!

La piccola chiesa di S. Anna dei Pompetti, nella piazza omonima di Teramo, la più antica della città, era dedicata un tempo a San Getulio, religioso molto amato nel teramano.

Fu molto probabilmente eretta nel periodo bizantino, circa VI secolo e questo la rende uno dei monumenti più vetusti d’Abruzzo.

Le notizie sicure si datano comunque dal secolo IX, anche se dagli scritti della nostra teramana la studiosa Anna Maria Cingoli, scopriamo un documento iniziale dell’897 dove si racconta di una donazione a favore del vescovo di allora del conte aprutino Manfredi.

Oggi questo tempio rappresenta un cospicuo resto dell’antica cattedrale di Teramo di Santa Maria Aprutiensis, anteriore al secolo VIII, edificata su di una domus privata romana e distrutta dal barbaro Roberto di Loretello detto di Basville e le sue truppe nell'immane incendio che devastò la capitale dei Pretuzi a metà del XII secolo.

La cattedrale era grande e si estendeva in larghezza fin dove poi fu costruito il bel palazzo della famiglia Savini, ancora oggi esistente e adiacente la piazza.
In quel tempo Teramo era governata dai conti aprutini, dipendenti dal re normanno Ruggero II.

I principi del regno di Sicilia approfittarono della morte del re nel 1154 e della salita al trono del debole figlio Guglielmo I, per inscenare una profonda ribellione che sfociò in una guerra nella quale l’epilogo fu la terribile messa a sacco della cittadina teramana.

Come per un miracolo e i teramani ne furono convinti, le spoglie del glorioso San Berardo rimasero illese, nascoste com'erano sotto delle pietre di una minuscola cappella a lui dedicata.

A Teramo rimase in piedi qualche mura di Santa Maria a Bitetto, la piccola casa medievale dei Francesi di cui parlo in altre pagine del blog e parte del chiostro nel convento francescano delle Grazie.

La torre accanto all'antica cattedrale fu bruciata e oggi è visibile la parte più bassa proprio dietro l'ingresso del tempio.
Tant'è che l'intero quartiere è conosciuto come quello di "Torre Bruciata".
Del vasto edificio rimase solo una piccola parte di cui erano in piedi tre minuscole campate e il presbiterio.
Quel che resta della domus e dell’età romanica è ben visibile all'interno della chiesa attuale.

L’antica cattedrale raggiunse la massima importanza certificata da una bolla del 27 novembre 1153 di papa Anastasio IV che la definì “sede permanente dell’intera diocesi aprutina”.

All'interno da vedere c’è la bella statua di cartapesta raffigurante S. Anna con la Madonna bambina, appena restaurata e restituita al culto in questa settimana di luglio e un antico affresco in fondo al piccolo presbiterio di autore sconosciuto.

=========================
Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
=========================