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domenica 23 giugno 2013

L'escursione: la Valle degli Eremi

Tra la Montagna dei Fiori e quella di Campli, nell’angusta gola del fiume Salinello: natura, leggenda, storie di re, pastori ed eremiti.

Da Ripe di Civitella del Tronto, si prende una strada bianca dopo la chiesa di San Pietro, che conduce in poco più di un chilometro ad un piazzale.
Si lascia l’auto e si procede a piedi lungo la carrareccia.
In dieci minuti si è davanti alla grotta di S. Angelo.

Poco dopo l’eremo si scende lungo un ripido sentiero che raggiunge il greto del fiume. Una piccola e remunerativa deviazione a sinistra scende alla bella cascata de “Lu Caccame”.

Percorrendo la sinistra orografica della valle in venti minuti circa si è davanti a un’ampia ansa del fiume e al bivio per Santa Maria Scalena.

La pericolosità del pendio sconsiglia la visita, soprattutto a chi non è esperto di escursionismo e alpinismo.
Il sentiero si addentra nel cuore delle gole e si ha bisogno di scarpe in gore tex per alcuni guadi da effettuare nell’acqua.
Dove la valle si allarga, il piccolo sentiero devia a sinistra e attraversa un ramo del Salinello.

Qui è visibile il bivio per l’eremo di San Marco raggiungibile da esperti in dieci minuti nel bosco.
Poco dopo il bivio per San Marco, lungo il sentiero che risale la valle, troviamo sulla destra una debole traccia che sale ripida lungo un brecciaio, inoltrandosi nel bosco e raggiungendo, in venti minuti, le Torri di San Francesco e l’eremo omonimo che la leggenda vuole sia stato utilizzato dal santo di Assisi.

Risalendo alle Torri, si riprende il sentiero che dopo pochi minuti, si ricollega al tratto principale proveniente da Ripe.
Presto si scorgeranno i leggendari monconi di mura di quello che era il Castello del Re Manfredi di Svevia, in alto sul costone roccioso.

È assolutamente un luogo magico.

Se lo si vorrà raggiungere, occorrerà una buona mezz’ora e, alla fine, avrete camminato per circa due ore e mezza.
Il paese più vicino sarà Macchia da Sole, su di un antico percorso di pastori.
Dalla rocca, dista circa venti minuti.




Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".

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sabato 22 giugno 2013

Campli e Civitella del Tronto: parla la storia

Un territorio straordinario dove arte, natura, storia e religione si uniscono alla più classica delle culture gastronomiche contadine per accontentare anche il viaggiatore slow.
I segni prepotenti dell’antico nelle piccole rue, si fondono con un ambiente sontuoso!


Il netturbino, corpulento, passa a bordo della sua Ape scoppiettante.

Quando il rumore svanisce, il silenzio ripiomba sulle pietre della facciata artistica di Santa Maria in Platea fino ai mattoni dorati del cinquecentesco palazzo dei Farnese che qui hanno fatto la storia.

Alle sei del mattino comprendi meglio i gioielli celati dal borgo antico di Campli.
L’aria è frizzante, il sole è una palla rossa sulle colline che circondano l’abitato.
I legni dorati del soffitto della parrocchiale con i suoi artistici dipinti, le eleganti ogive, la misteriosa cripta affrescata, nella luce delle prime ore del giorno, acquistano una bellezza senza tempo.

Lungo il corso seguo l’itinerario classico alla scoperta della “Casa del medico” con la sua corte antica, la millenaria chiesa annessa al convento di San Francesco.

Mi immergo nella spiritualità salendo in ginocchio i 28 gradini della Scala Santa, lucrando l’identica Indulgenza di quella di Roma e Gerusalemme.

Subito dopo il panino con porchetta, vanto gastronomico del borgo, parto per un percorso alternativo alla statale che, da Teramo porta ad Ascoli Piceno e, tra campi arati, mi fermo davanti ai resti dell’antico monastero di San Bernardino, da anni oggetto di restauro infinito.

Uno dei luoghi sacri più interessanti tra quelli fondati dall’Ordine Mendicante di San Francesco, a cavallo tra il buio del Medioevo e la luce del Rinascimento.
Lungo la piana di Campovalano, lì dove furono scoperti i resti di una necropoli antica dell’età del ferro, svetta il piccolo campanile della romanica chiesa di San Pietro.

Già incombe il profilo possente della cinquecentesca fortezza borbonica di Civitella del Tronto, tra le più grandi d’Europa, strenuo baluardo degli ideali del Regno di Napoli.

Abbarbicata come edera alle vecchie abitazioni in pietra, corre sopra le chiome degli alberi e si impone come vigile sentinella dei confini settentrionali del Regno delle Due Sicilie.

Oltre l’antica porta d’ingresso, dentro le intatte mura medioevali che corrono intorno al fortino, cingendo le abitazioni aggrumate l’una all’altra, sembra essere tornati al tempo in cui la vita era regolata dalla creatività degli uomini.

La fortezza solida, un po’cupa, è uno scenario che seduce.

Sulle mura s’arrampica la luce della storia nel riflesso degli antichi camminamenti sopra ingegnose cisterne per la raccolta delle acque piovane.
Civitella del Tronto è un viaggio esaltante nel tempo.
Lungo la strada fortificata, che costeggia i muraglioni esterni, sopra i tetti delle case in pietra, si scorgono le feritoie crociate.

Le mura sembrano ancora rimbombare dell’eco di epiche battaglie.
Dalla balaustra dello sperone, osservo il volo elegante di un nibbio chiudersi a triangolo nel bosco delle gole del Salinello.

Lungo la valle che sposa il territorio marchigiano, si nota l’imponente campanile dell’abbazia benedettina di Montesanto, antico confine dello stato pontificio.
Il paese è un museo a cielo aperto che fonde strutture d’epoca romana alle case alto medioevali dagli archi a sesto acuto, i fregi in cotto.

E’ indispensabile perdersi nel labirinto degli stretti vicoli.
Allungando il collo dentro scantinati, portoni o chiese, appaiono tesori inaspettati: colonne antiche, fontane, scalinate in pietra bianca.
Dalla terrazza di Piazza Pepe si gode un paesaggio superbo.
Un incrocio di valli, le montagne gemelle e il blu del mare Adriatico.

Il campanile del convento di Santa Maria dei Lumi, fuori il paese, batte l’ora media.
Fu proprio lì che la Vergine, a cui si attribuiscono molti miracoli, apparve tra miriadi di fiammelle danzanti.
Un paesaggio d’altri tempi.
Vigne, crinali, campi arati, strade, siepi. Lande verdi dove un tempo si registravano le scorribande dei briganti, lo stanco incedere dei pellegrini, lo speranzoso cammino dei commercianti del sale e delle lane.

Geografie minute che si legano alle vicende storiche di secoli.
Dopo un sontuoso piatto di “ceppe” al sugo di castrato e una porzione di “pollo alla franceschiella”, diventa forte il bisogno di un tuffo nella natura più selvaggia.
Nella vicina Ripe, la vita frenetica lascia posto a sensazioni desuete.

Il fiume Salinello, nella parte più selvaggia del suo corso dove si incunea spumeggiante in un canyon, sembra parlare.
Lo scorrere del fiume, qui ancora giovane e bizzoso, dà vita ad un ambiente straordinario ricco di giochi d’acqua che confluiscono nello spettacolare salto della cascata de “lu Caccame”.

E’ tra gli anfratti di quella spugna di roccia che è l’arenaria della Laga che il fiume, difficile da contenere, si prende le ultime soddisfazioni prima di precipitare in Val Vibrata, sfaldandosi in rivoli nel mare Adriatico.

All’interno di queste gole, s’incontrano eremi nell’arenaria bucata dal lavorio incessante delle piogge.
Oggi le grotte fanno di questo luogo un unicum di grande interesse antropologico con testimonianze dell’età del bronzo e del neolitico.





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venerdì 21 giugno 2013

Le Terre di Cerrano: prossima fermata, Il Paradiso

Millenari resti storici e presenze animali popolano il tratto di costa denominato “Terre del Cerrano” in un autentico spettacolo della natura raccontato per voi.

Il mare cerca di rubare la scena al cielo con la spuma delle onde e il blu profondo delle acque.
Al riparo di un pino ammiro il volo dei gabbiani.
Dio protegge questo mare, la sua splendida pineta ed le nuvole rade che si distendono sulla linea dell’orizzonte rendendo i colori bellissimi.

Anche il bikini della bella tedesca che passeggia sulla battigia è colorato come non mai.
La ragazza appare radiosa. I capelli sono leggermente mossi dalla brezza.
C’è anche un uomo alto e magro con un grosso gozzo e una età indefinita.
Il suo buffo cappello scamosciato, bianco color torrone di foggia potrebbe sembrare più adatto ad una passeggiata nel cuore del Tirolo che per coprirsi dal sole sulla spiaggia della torre del Cerrano.

Mingherlino com’è, quasi scompare tra le pieghe multicolore del pareo di un’autentica matrona, una donna gigantesca che potrebbe essere la sua metà e mezza del cielo.
Hanno il naso all’insù forse per cercare di scorgere un Fratino, un uccello marrone di appena 15 centimetri, vero simbolo naturalistico delle spiagge adriatiche.

Un piccolo essere così importante da giustificare un periodico censimento da parte del WWF Abruzzo, come racconta l’ornitologo Augusto De Santis dell’associazione.
 Li chiamano “curri curri”, perché quando si sentono in pericolo per l’arrivo di un estraneo corrono via dal nido, recitando la parte dell’animale ferito non in grado di volare.

Basta attendere qualche minuto per vederli tornare verso il nido con le uova dei piccoli.

Si prospettano tempi duri nel futuro di una specie che vive in uno degli ambienti più compromessi dal cemento.

E’ noto, infatti, che il litorale abruzzese ha circa l'89% della sua lunghezza complessiva, del tutto urbanizzato.

Servirebbe una rivoluzione nella gestione della costa perché si realizzi un riequilibrio del territorio a favore della natura.

Pensate che per il Fratino, in continua ricerca di luoghi puliti, la maggiore densità di coppie per chilometro lineare di spiaggia, è stata riscontrata in due siti, la Torre di Cerrano, appunto, nella nostra provincia e il tratto di spiaggia davanti alla stazione di Tollo in provincia di Chieti.

Il lembo di terra protetta tra la torre e, a sud, il territorio di Silvi, non ha mai rinunciato ai ritmi lenti, immerso tra pini d’Aleppo e macchia mediterranea, tra colline di uliveti e campi coltivati.

Questo mare è custode di tesori dal gusto leggendario, preziosi doni di origini greche, resti e relitti.

Sotto queste acque si trovano le rovine sommerse dell’antico porto di Hatria esistente dal VII secolo a.C. ancora funzionante nel XIII secolo e sprofondato per un terremoto nei primi anni del 1600.
Un tesoro di archeologia subacquea che meriterebbe l’attenzione del mondo intero, testimonianza di come l’Adriatico sia stato da sempre crocevia di importanti commerci e culture profondamente diverse.

Il mare fa da habitat a specie marine di pregio biologico tanto da far nascere una sorta di osservatorio della fauna, nei recessi più reconditi della monumentale torre.

Ci sono pesci di tanti tipi, cicale di mare, granchi e alghe che colorano vivacemente un paesaggio marino dalle tinte paragonabili ad un dipinto ad olio.

Esemplari di delfini nuotano a largo nelle zone più profonde, avvistati dalle lancette dei pescatori.
La parte terrestre dell’oasi è habitat di uccelli migratori e avifauna stanziale, alla ricerca costante di nutrimento e tranquillità per i loro piccoli.

Tra le piante crescono spontanee erbe aromatiche dai profumi arabeggianti e importanti fioriture di “Rotulea Rollii”, nome scientifico dello zafferanetto delle spiagge che da queste parti si credeva una essenza ormai estinta.

Sulla battigia il vecchio lupo di mare dal viso appassito dal sole, la pipa in bocca che sembra la pubblicità del “tonno Nostromo”, è intento a rammendare le reti.

Mi guarda, stranito, poi sorride.
Per lui il mare è solo lavoro.





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giovedì 20 giugno 2013

Montepagano: il nobile balcone sul mare

Scorci di paesaggi stupendi, gocce di medioevo!
È il borgo di Montepagano che sovrasta la caotica spiaggia di Roseto, dove il tempo pare si sia fermato.

Il cavalletto portatile piantato sul terreno, la tavolozza dei colori e il rapido movimento dell’artista sulla tela.
Piccoli colpi di spatola e il paesaggio avvolge sinuoso.
Non potrò mai riuscire a copiare la bellezza di questo luogo”- mi dice, alzando la testa dalla sua creazione, rapito dalle onde del mare sottostante.

Lì dove oggi c’è la stazione balneare di Roseto degli Abruzzi, un tempo esisteva un piccolo agglomerato di case e tanta sabbia, fin quando, centocinquantadue anni fa, il 22 maggio 1860, non sorse questa industria turistica, per gemmazione dell’antico feudo di Montepagano.

Il balcone della porta da Borea con il suo arco a ogiva si apre sull’immensità del mare, con vedute che si allungano fin quasi al Conero marchigiano.
Il profumo di verde e l’aria pura di collina, la ruvida e calda pastosità delle pietre antiche, rendono una bellezza che produce un incanto profondo.
Sono arrivato a piedi, attraverso un ripido e antico percorso.

Gli abitanti lo utilizzavano per scendere i trecento metri di dislivello che dividono il colle dal mare.
Ho incontrato la storica “Fonte dell’Accolle” dell’ottocento, oggi quasi in abbandono, dove le donne facevano bucato e tornavano a casa, con testa la conca piena d’acqua e, sotto braccio, la canestra dei panni.

Dall’alto della collina è apparso chiaro ciò che sta accadendo: i paesaggi rurali di secoli stanno scomparendo, inghiottiti da un presente fatto di cemento, di sconquassi e di cantieri edili.
Le valli, intonse per migliaia di anni, stanno morendo nel fervore del cemento.
La multiforme ricchezza della ruralità italiana è sempre più minacciata dall’espansione urbana.

Eppure da questo balcone in cui si scorge Silvi Alta e più giù Pescara, tutto pare essersi fermato.
I rintocchi della torre della S.S. Annunziata scendono come pioggia.

L’imponente cupola domina l’abitato.
Il monumentale tempio nacque dal miracolo dell’immagine della Madonna che pianse, incredibilmente, per più giorni.

L’antico feudo dei Normanni, arroccato sulla collina, conserva bei scorci dal passato.
Il suono è certamente diverso da quello, possente, che si sprigionava nel periodo delle incursioni barbariche, dalla grossa campana del paese i cui rintocchi giungevano alle galee al largo della costa.

Il frastuono avvertiva l’imminenza degli sbarchi dei turchi distruttori.

Dire che qui tutto è rimasto come al tempo della giurisdizione degli Abati di San Giovanni in Venere nel chietino, non è bugia.
Dal campanile di quaranta metri, simbolo che si erge nella piazza con la cella campanaria dalle tre campane, si dipanano stradine medievali dove immergersi nel silenzio.

La torre di Sisto V del secolo XVI, rimasta orfana della chiesa, vive ancora la tradizione della Confraternita del S.S. Sacramento che, nel ‘500, assisteva gli indigenti e che oggi si occupa di organizzare i festeggiamenti al patrono, S. Antimo protomartire.
La statua solleva instancabile con la mano, da migliaia di anni, il castello medievale.

E’ in questa piccola cornice che si trova il Museo della Cultura Materiale, uno degli oltre quattromila sparsi nella penisola, risorsa preziosa della nostra storia.
Dal 1987 l’istituzione, nata ad allacciare il filo della memoria con il vissuto paesano, ha il compito di ricercare le testimonianze materiali dell’uomo e del suo ambiente, conservandole e comunicandole.

I locali espositivi sono visitati mediamente da più di millecinquecento appassionati l’anno.
Tutto il prezioso materiale è contenuto in ambienti ricostruiti fedelmente grazie all’associazione, “Vecchio Borgo”, fondatrice del museo.




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martedì 18 giugno 2013

Traversata delle Gole del Salinello (1996-05-12)


La traversata delle Gole del Salinello ha rappresentato una delle più emozionali tra le escursioni del 1996.
Incassate tra i Monti Gemelli del Foltrone e della Montagna dei Fiori con la cima del Girella le gole sono un vero e proprio canyon dalle pareti strettissime a strapiombo modellate dal lento lavorio dell'acqua.

A rendere ancora più interessante la giornata la visita ad uno degli eremi presenti in zona: la Grotta di Sant'Angelo nel cui interno troviamo un altare con mensola in pietra del XIV° secolo dedicato all'Arcangelo Michele.

Ecco "Lu Caccame", la splendida cascata che ci accoglie con i suoi due salti di 35 metri di dislivello.


Le altissime pareti rocciose si avvicinano sempre più dando l'impressione di volerci cadere sopra fino al punto più stretto e suggestivo dove la distanza non è di più di tre metri con una altezza di circa duecento.

Sotto al Monte Girella l'escursione ci regala nuove emozioni .. stiamo per arrivare nei pressi dei ruderi di Castel Manfrino a 963 metri di altezza.
La fortificazione di Castel Manfrino eretta nel 13° secolo dagli Svevi ad opera di Manfrino fu ulteriormente rafforzata dagli Angioini ricoprendo un ruolo strategico nello scacchiere difensivo dell'epoca.

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Riprese di Vincenzo Cicconi della Pacotvideo.
Il video ha una durata di circa 3,30 minuti ed è stato pubblicato su cinque canali di video sharing gestiti dalla PacotVideo:
(YouTube - DailyMotion di Virgilio - Vimeo - Blip.TV.

E' stato pubblicato su tre blog anch'essi gestiti da Vincenzo Cicconi della Pacotvideo:

- blog della Città di Teramo
- blog della PacotVideo
- blog di Pensieri Teramani

E' stato pubblicato sulle pagine Facebook:
1 - Produzione Video a Teramo (Abruzzo) - PacotVideo.it di Cicconi Vincenzo
2 - Il blog della città di Teramo e della sua Provincia
e sulle pagine di Google Plus
1 - PacotVideo di Cicconi Vincenzo
2 - La Città di Teramo e la sua Provincia

Infine la pubblicazione del video è stato comunicato attraverso Twitter
1 - PacotVideo di Cicconi Vincenzo
2 - Città di Teramo

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In piazza come in salotto

Le insegne della riviera promettono svago e benessere sui tre chilometri di litorale e la splendida passeggiata alberata.
Annunciano divertimenti per nottambuli e famiglie, menù turistici tutto compreso.
Nessun cartello avverte che a cinque minuti di auto, sui rilievi collinari che si affacciano sul mare, tra vigneti e oliveti, esiste il gioiello storico di Tortoreto Alto.

A dire il vero, molti di questi campi non sono più coltivati, aggrediti dal cemento che sta colonizzando il territorio ovunque, senza posa.
Il vecchio borgo medioevale è un’autentica alternativa culturale all’affollamento estivo della costa.
M’inerpico a piedi lungo la salita che porta ai 227 metri di altezza del paese.
Gli orizzonti sono dolcemente mossi come lenzuola gonfiate dal vento.

Morbide ondulazioni gialle e rosse di una primavera piovosa ma colorata, sembrano rincorrersi fin quasi a morire sulla spiaggia sottostante.

Ho davanti agli occhi l’azzurro cupo del mare che si unisce a quello più delicato del cielo che sembra inabissarsi nelle acque dell’Adriatico.

Il flusso continuo delle vetture sfreccianti sull’autostrada ricorda, bruscamente, che il Paradiso non è di questa terra.
Colpisce il silenzio della campagna pur così vicina alla trafficata A 24.
Il borgo, costruito intorno ad una piccola rocca, fu un punto di passaggio importante per le truppe romane che scendevano all’Adriatico.

Oggi naturalmente i percorsi sassosi del passato non esistono più e si arriva al paese, attraverso colline in molti casi deturpate da un’insensata edificazione che stravolge ambiente e storia.
C’è comunque un pezzo di natura protetta da vent’anni tra aironi cenerini, cigni neri, caprioli.

L’oasi naturalistica è ignorata dai teramani e gran parte dei visitatori arriva dalle Marche.
Neanche le scuole portano i ragazzi per una salutare lezione ambientale.

Tortoreto alta doveva sembrare nell’antichità un fiore selvatico sbocciato tra le rocce e i boschi.
Il luogo era adatto alla nidificazione delle tortore, da qui l’etimologia del nome “Turturitus”.

In cima, dal belvedere della Fortellezza, la vista spazia attraverso un grande tratto di costa, tutta la catena del Gran Sasso e la Maiella.

Il centro urbano si riconosce nei quartieri di Terravecchia, il più antico con il convento di Sant’Agostino, Terranova, sorto intorno al 1100 con la chiesa del patrono San Nicola e Borgo Antico.
Il paese ha l’animo discreto, arroccato intorno alla torre dell’Orologio che di notte scambi per luna sorgente. L’antico manufatto svetta possente mentre resistono monconi di muro dell’antica fortificazione.
La piazza della torre è quasi un salotto, ultimo spazio aperto prima del presepio del centro storico.

Il paese nel pomeriggio di domenica è immerso in un silenzio irreale.
Le case addossate l’una all’altra, i piccoli loggiati, sono un evidente retaggio del passato.
I caratteristici archi a blocchetti di pietra colpiscono l’immaginario del visitatore.
La cappella della Misericordia, mirabilmente affrescata, s’integra perfettamente nella omogeneità del panorama architettonico.

Esterni semplici ma armoniosi, interni sobri, quasi austeri con un'unica sala divisa in due campate con il soffitto dalle volte a crociera.
In fondo un’abside anonima ma sui muri uno tra i più preziosi cicli di affreschi a raccontare la Passione del Cristo e i momenti salienti della sua vita attraverso gli occhi di Giacomo Bonfini, seguace di Cola D’Amatrice, Piero Della Francesca e il Perugino.

La chiesa fu edificata intorno alla fine del Trecento come ringraziamento alla Madonna che avrebbe liberato il paese dalla terribile peste del 1348 di cui parla anche il Boccaccio in un passo del suo Decamerone.

Pochi metri più avanti, la chiesa di San Nicola, del XVI secolo, ospita la statua d'argento della Madonna della Neve, del 1925, e un pregevole organo dell'800.
Ritmi tranquilli, lontani dal caos della vicina riviera ad affermare le due anime contrapposte di un’identica comunità.

Il paese è per pochi. Non è un centro di negozi di massa, non è meta per predatori di souvenir.
Ha la sonnolenza dei luoghi in cui si lavora in segreto.
Le recenti scoperte archeologiche del Colle Badette e della località Case Pecci, in grado di eguagliare i ritrovamenti avvenuti anni fa in contrada Ripoli nella Vibrata, attestano la presenza dell’uomo fin dalla preistoria e aprono interessanti prospettive future per il turismo e la cultura.

Ossa in grado di far capire la struttura morfologica degli individui di quel tempo, cinturoni in pelle di animali, fibule bronzee, vasi per contenere unguenti, anfore.
Reperti che dovevano, secondo gli esperti, appartenere a nuclei familiari di condizioni economiche agiate, scoperte che si sommano alle tante testimonianze preistoriche rinvenute negli scorsi anni, come quella di un mammut dell'epoca neozoica (circa 1 milione di anni fa) e di un bue primitivo di circa 150.000-200.000 anni fa.
Tortoreto è una bellezza naturale e storica, aggredita dal cemento ma sostanzialmente inattaccabile.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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lunedì 17 giugno 2013

Il richiamo della foresta

Tratto dal libro "Silenzi di Pietra" con le fantastiche foto scattate in giro per la Laga dall'amico Alessandro de Ruvo, fotografo naturalista e componente del C.A.I. di Teramo.

Ho fatto una scoperta, scriveva Carlo Carretto autore di saggi religiosi, sulla strada del vivere le cose; la scoperta consiste nell’entrare nel gioco della creazione, come nella più semplice e meravigliosa strada per incontrare il Creatore.

Verde di boschi e fresca di acque scroscianti, queste montagne appartate, a lungo ignorate da escursionisti e naturalisti, serbano stupende sorprese sia nel versante amatriciano, che in quello teramano.

E’ impossibile raccontare le emozioni in questo orizzonte indefinito tra realtà e fantasia, dove occhi e pensieri si confondono e riescono a percepire sfumature altrimenti invisibili.
Qui nel bosco bisogna lasciare tutto, dal cellulare all’ipod, elettrodomestici, letto o cose del genere.
Bisogna vivere nella gioia di raccogliere legna e vedere la fiamma viva tra due sassi semplici.

Mi sento felice come un bambino quando posso vedere getti d’acqua inebrianti: da questo versante laziale, l’Organza, le Barche, il salto di Cima Lepri, dall’altra parte lo scrosciare dell’acqua della Morricana, tra gradoni rocciosi di arenaria, nel fiabesco contorno del bosco della Martese.

La cascata delle Barche, raggiunta faticosamente dalla località Capricchia, apre il cuore per la sua bellezza selvaggia.

L’ultimo salto di questo fosso chiamato della Solagna, prima di tuffarsi allegramente nell’imbuto di Selva Grande, cade a strapiombo per quaranta metri e in primavera si propone come una bella gita familiare.

In località Sacro Cuore, antico convento di Capricchia, piccolo presepe di case del reatino, parte un interminabile saliscendi faticoso in mezzo ad una gola stretta dove lo sguardo non riesce mai ad avere l’agio della distanza. In lontananza, lo scrosciare delle acque è musica per le mie orecchie.
Sotto i piedi, uno smisurato tappeto di foglie morte, accompagnano i passi con la loro musica fatta di cric e di croc.

I faggi sembrano formare una volta fitta e compatta sopra la testa.
Qua e là mostrano la loro cima frondosa, austeri abeti bianchi.
Sono piccoli ma, nell’altro versante, quello della località turistica teramana del “Ceppo”, gli alberi raggiungono nella foresta della Martese, la ragguardevole altezza di trenta metri.

E poi cerri, aceri, carpini, frassini, olmi e rari tassi con le loro deliziose bacche rosse.
Ricordo che alcuni ragazzi in gita, anni prima, mentre li accompagnavamo noi del CAI di Teramo, stavano per farne una scorpacciata, senza minimamente immaginare quanto fossero tossici.
D’inverno, quando il freddo blocca gli scheletriti alberi della foresta in una morsa di gelo, le sagome alte e slanciate degli abeti bianchi svettano solitarie.

Questi alberi amano crescere in boschi cedui, insediandosi in selve piene di cerri o, impenetrabili faggete, slanciandosi diritti verso il cielo e superando in altezza gli altri elementi della foresta.
Appaiono inconfondibili nel loro colore verde scuro intenso, unica nota cromatica vitale nella monotona e grigia tonalità di una foresta dormiente.

Ma, nelle altre stagioni, questi colossi sono signori incontrastati della bellezza del bosco.
Lo stupendo albero è considerato da secoli, il simbolo dell’immortalità.
E’ il vigore della vita che supera e sconfigge la morte dell’inverno sui Monti della Laga.

I più bei esemplari si trovano, oltre che nella foresta della Martese, anche a ridosso di Cortino, lungo la valle della Corte e nella gola del fiume Vomano nella provincia teramana.
L’unica abetina nel Gran Sasso è nel territorio di Tossicia, in quella che era anticamente la Riserva di caccia dei feudatari nella vallata.

A dire il vero, un ciuffo di questi alberi fu preservato per molti anni anche a Piano Maggiore, nel cuore dei monti Gemelli, Furono i frati del convento di San Sisto, su di un colle vicino soprastante il piccolo bacino lacustre del lago di Sbraccia a piantare questi patriarchi dal tronco dritto.

Oggi in quel luogo non ne esistono più!
Sono scomparsi all’inizio del 19esimo secolo.
E pensare che anticamente gli abeti in particolare godevano di rispetto ferreo e cure amorevoli.
Alcuni statuti comunali prevedevano forti sanzioni e anche l’arresto per chi deturpasse questi giganti della natura.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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domenica 16 giugno 2013

La chiesa degli "Eruli"

Un incrocio di valli, fili di fumo grigio da camini di vecchie fattorie, campi coltivati scossi dal vento.
Un paesaggio d’altri tempi.
Spira il grecale, portando i profumi della terra.
Continui cambi di prospettiva.
Vigne, crinali, campi arati, strade, siepi e alcuni campanili che denotano la presenza dei paesi.

E’ bello percorrere le strade di collina che fanno da spartiacque tra i fiumi Tordino e Salinello.
La mappa del territorio, di clivo in clivo, si accompagna alla certezza di una beltà senza confini, in un susseguirsi di cambi di scena comunque uniformi.
Geografie minute che si legano alle vicende storiche di secoli.

La mia digitale scatta una classica foto panoramica che celebra l’incontro tra l’uomo distruttore e la natura riparatrice.

A Ripattoni, due passi dall’antico borgo fortificato di Bellante, la vita sembra scorrere come un tempo quando nel X secolo, queste terre erano di proprietà del suo primo feudatario, Attone.

Gli antichi palazzotti signorili sembrano condannati dal tempo e dall’incuria alla completa decadenza.

Non abdica al ruolo di severo custode delle origini medioevali, l’imponente torre in centro paese.
Il silenzio è rotto da un corteo strombazzante di auto al seguito di un matrimonio.

Vanno nella mia identica direzione, completando l’ultimo tornante prima di imboccare la stradina sconnessa che porta all’antica parrocchiale di Santa Maria in Erulis.

Seguo la polverosa comitiva e arriviamo tutti insieme davanti alla minuscola chiesa, oggetto di un lungo intervento architettonico che le ha restituito parte della sua originaria bellezza.

Il complesso architettonico è tutt’altro che imponente.
Questo tempio campestre, a unica navata, dalle notizie storiche incerte è d’impianto romanico.
Si denota soprattutto per una bella monofora e alcune colonne.

La chiesa, secondo gli scritti del Palma, era frequentata in epoche lontane dai servitori, gente umile i cosiddetti “eruli”.

I padroni delle terre, come ricorda Rino Faranda in una delle sue pubblicazioni, seguivano le messe nell’aristocratica parrocchiale di San Silvestro, oggi Santa Giustina.
Tra i parenti in festa, riesco a soffermarmi sul romantico portico a tre ingressi, due ai lati, uno al centro.

Nella cuspide che sormonta il piccolo portale, oggi completamente rifatto, un tempo faceva bella mostra di sé una Vergine con, in braccio, il Bambino stretto nelle fasce.
Sono risucchiato dalla frotta di gente pronta a entrare.

All’interno, tratti di affreschi cinquecenteschi ricoperti da poco interessanti e successive pitture del ‘700.
Anticamente la chiesa era sicuramente tutta affrescata e questo rende l’idea della sua importanza artistica.
Oggi fanno bella mostra di sé tre altari.

L’insieme è gradevole nonostante il tempio sia stato rimaneggiato da alcuni furti, l’ultimo dei quali, nel 1979, vide la scomparsa di una pregevole statua lignea della Madonna di fattura tarda trecentesca.

C’è anche un bel soffitto con travi di legno.

Il presbiterio, un gradino più in alto del pavimento, è compreso in un arco a tutto sesto.
Intorno, figure votive di piccoli putti, la Madonna del Carmine e santi a decorare tutto l’insieme.
Gli sposi raggianti celebrano il loro “si” .
Sorrido e, in cuor mio, auguro loro una buona vita in due!

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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sabato 15 giugno 2013

Annibale nei monti della Laga: leggenda o realtà?

I Monti della Laga non possono certo competere in quanto a leggende con i vicini Sibillini.
Non abbiamo qui le storie incredibili della Sibilla cumana, del Guerrin Meschino o di Pilato sprofondato nel lago omonimo.

Anche quella che molti definiscono la leggenda del passaggio, tra questi aspri monti, del grande condottiero Annibale, in realtà secondo molti studiosi non si tratta di fola ma di storia.

Quando il generale cartaginese (247-183 a.C.), figlio di Amilcare, che provocò l'aprirsi della II guerra punica con la presa di Sagunto, alleata dei Romani (218), vinse l’epica battaglia a Canne in Puglia, nel 216 a.C., sembra che giorni prima si fosse fermato poco più a Nord, nella Vibrata, curando i suoi cavalli dalla scabbia contratta sul Trasimeno e ristorando i suoi uomini con il vino dei Marsi e dei Sanniti.

Lo racconta il poeta Ovidio che, nel suo capolavoro Le Metamorfosi, descrive i vigneti abruzzesi, esaltandone bellezza e importanza.

E’ storia che a Campo Imperatore, ad un'altitudine media di 1.800 metri, una lunghezza massima di 27 km e una larghezza di 7-8 km, una delle più belle zone sciistiche dell'Italia centrale, Fabio Massimo vi si fortificasse per contrastare la discesa di Annibale dal Piceno a Roma.

E’ ancora la storia che narra delle prime tracce di Sulmona, patria del grande ed ancor oggi amatissimo poeta Publio Ovidio Nasone nato colà nel 43 a.C., tracce che si rilevano nella menzione che ne fa Tito Livio a proposito della distruzione che operò Annibale nel 211 a.C.

E sono molti gli studiosi che sostengono la tesi di un cartaginese che, dopo aver saccheggiato tutto il Piceno, si accampò con le sue truppe nel ricco e fertile Ager Hatrianus, l’odierna Atri, per ritemprare le sue truppe sfinite dalle tante battaglie.

Come in un caleidoscopio che passa da scenari ancora selvaggi a colline addolcite dalla mano umana, da lunghe spiagge bianche ad alte montagne su cui vola l'aquila reale, tra le cime del monte Gorzano (2458 metri) e del vicino pizzo di Sevo (2422 metri), nascono curiosità!
Ad esempio, tra le due montagne si snoda il cosiddetto “valico di annibale”, chiamato in tal modo in ricordo del passaggio del condottiero cartaginese.

Annibale dovette probabilmente anche impegnarsi in cruente battaglie in questo incantevole lembo di terra.
Lo si deduce dai nomi che, coloro i quali frequentano i boschi della Laga conoscono bene: Macera della Morte, Monte dei Morti, Tracciolino di Annibale, Monte Romicito, Valle dell’Inferno.

Quando ebbi la fortuna di inerpicarmi sulla vetta del Pizzo di Sevo, incontrai un sessantenne molto ardimentoso che si divertiva a scalare tutte le vette possibili.

Parlando con lui che conosceva incredibilmente il territorio, mi indicò dall’alto la via che, secondo i suoi intendimenti, Annibale aveva praticato per arrivare fin qui.
Dalle Marche attraverso la Salaria, il percorso partiva dalla cima del Monte Comunitore, per il valico del Passo Chino inerpicandosi lungo l’ampio costone che tocca la vetta della Macera e il Pizzutello al di sotto di Cima Lepri, in un tourbillon di incredibili ascese e discese.

Ciò che colpì particolarmente la mia fantasia fu il “come” il condottiero avesse fatto arrampicare fin lì gli elefanti, tant’è che il mio amico disse subito che molti animali così come i soldati perdettero la vita tra tempeste di neve e indicibili sacrifici.

Il maturo escursionista mi indicò poi il guado attraverso cui il condottiero sarebbe passato per distendere le sue falangi armate nelle beate colline del Vibrata, un angusto passaggio a sud del Pizzo di Sevo sopra cui eravamo.
Secondo il mio esperto interlocutore la vera “Salaria” era proprio questa. Antichissima arteria, poi caduta in disuso perché troppo selvaggia.

A seguito della sconfitta del popolo Piceno e la conquista di tale territorio il tratto venne prolungato nella valle del Tronto.

In un libro di Alfiero Romualdi dedicato a storie di vita vissuta sulla Laga, l’autore originario di Fioli, piccolo borgo del comune di Rocca Santa Maria, ricorda a tal proposito gli scritti dello storico Palma che sostengono proprio questa tesi di una Salaria scavalcante la dorsale della Laga per giungere sulla costa adriatica attraverso le gole del Salinello e la Val Vibrata.

In questo territorio così aspro, tra monasteri incastonati nelle montagne, paesini arrampicati su speroni di roccia, castelli che punteggiano colli e alture, in un viaggio che diventa spesso un'esperienza dello spirito, un'emozione pura, fioriscono storie fantastiche.

In mezzo a grandi faggete interrotte da prati e torrenti dovette sostenersi una epica battaglia dove si fronteggiarono uno stratega abilissimo come Annibale e il console romano allora in carico, il già citato Quinto Fabio Massimo, che tutti gli studenti conoscono come il “temporeggiatore”.

La battaglia secondo la leggenda (o realtà?) fu il prologo di quella ben più sanguinaria di Canne dove il capo dei Cartaginesi, con forze inferiori di numero (ca. 35.000 uomini), riportò sui Romani, presentatisi alla battaglia con un esercito forte di ca. 50.000 uomini, una strepitosa vittoria.

Chi sa di storia ricorda che Annibale mise in atto un'abile tattica destinata a diventare classica nei secoli: cedimento iniziale del centro del suo schieramento per lasciarvi incuneare il grosso dell'esercito nemico, il quale, stretto in breve come in una morsa, veniva quindi attaccato ai fianchi e alle spalle con le ali e con rapidissime cariche di cavalleria.

La sconfitta dei Romani si trasformò in un'immane disfatta con ca. 30.000 morti, tra i quali il console Emilio Paolo, e ca. 10.000 prigionieri, mentre quanto rimaneva dell'esercito con il console Terenzio Varrone, cui era toccato il comando in battaglia, trovò scampo nella vicina colonia di Canosa; Annibale perdette in questo scontro immane, ca. 6000 uomini.

Tornando alla Nostra Laga, molte altre furono le leggende che fiorirono in zona.
L’antico tratturo che dalla Macera della Morte si incunea oggi fra tre province, la teramana, la reatina, la marchigiana, si sussurra che sia maledetto, poiché vi si sono verificati delle enigmatiche manifestazioni che la tradizione popolare ha trasformato in leggende.

Si narra ad esempio che lungo il canalone che porta a valle in direzione Est Ovest, furono così tante le vittime di quella immane battaglia che i loro corpi vennero accatastati come pietre destinate a formare una “macera”, un mucchio informe di pietre che diedero nome alla vetta.

Ce lo dice sempre Romualdi nel suo bel libro: “ Il XX secolo ai piedi della Laga”.
Ebbene c’è chi giura ancora oggi che alcuni escursionisti abbiano visto i fantasmi dei soldati aggirarsi minacciosi, tra i prati circostanti.
Ancora, verso la fine del 1800 una donna ebbe un insolito incontro e la fantasia popolare ha di nuovo rielaborato tale storia in maniera folcloristica, facendola diventare una leggenda.

Si narra che un giorno di fine estate era andata a pascolare i cinghiali, quando all’improvviso vide, nei pressi di una quercia delle donne che danzavano, mentre in lontananza si sentivano i frastuoni di un combattimento.
Esse erano vestite in modo inusuale e sembravano in preda ad un maleficio.
Di colpo comparvero soldati di epoca romana che trapassarono con le loro daghe i corpi delle ragazze, uccidendole.
La malcapitata alla vista di tutto ciò, spaventata, cerco di scappare ma questi la rincorsero.

La donna cadde e fu ritrovata diversi giorni dopo in uno stato confusionale con una profonda ferita di arma da taglio sulla gamba. I parenti pensarono che fosse sotto effetto di qualche arcano maleficio, così la fecero benedire.
Realtà o fantasia ?

E’ un fatto che, poco distante Sant’Omero in Vibrata, sia stato rinvenuto un cippo militare che qualcuno individuò in uno di quelli che delimitavano la famosa via Metella dal Console romano che la ideò!

Ed è ancora un fatto che i resti di una pietra romana si trovano al di sotto della vetta di Cima Lepri, nel cuore del complesso Laga.

Ebbene molti storici asserirono nel corso degli anni che proprio su questa via che proseguiva per il crinale del Ceppo, toccando Castel Manfrino, antico “Castrum Romano, attraverso le selvagge ed insidiose gole del Salinello, come già detto, dovette avventurarsi il nostro eroe cartaginese.
Il quale di buon grado si decise ad attraversare le pericolose falesie al di sotto di Macchia, pur di accelerare il suo arrivo verso l’Adriatico.

Questa zona di confine tra il Piceno e il Pretuzio era anche libera da truppe nemiche visto che anche qui fiorivano leggende di mostri mitologici e diavoli che si inerpicavano sui contrafforti del Foltrone e del Girella alla ricerca di malcapitati viaggiatori, tradizioni tramandate ancora oggi, delle quali si disinteressarono sia lo stesso Annibale e, più tardi, il grande Manfredi.

Se volete comunque ripercorrere a piedi il tracciato di Annibale, esiste un “trekking della Metella”, ideato anni fa dal C.A.I. di Ascoli Piceno.
In quattro giorni si può camminare sulle orme di Annibale toccando luoghi di notevole bellezza naturale come le citate gole, il Bosco Martese, incontrando cenobi benedettini, eremitaggi, natura selvaggia, cascate, fino a scavalcare la dorsale appenninica e arrivare in prossimità di Sommati in zona Sacro Cuore nel Reatino per finire la fatica davanti ad un piatto fumante di bucatini alla Amatriciana.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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venerdì 14 giugno 2013

Sul crinale degli Acquaviva

Un percorso turistico da percorrere in bici ma anche in auto!
Dall’Area marina protetta del Cerrano al Parco nazionale Gran Sasso-Monti della Laga, passando per l’Oasi dei calanchi di Atri e per la Riserva naturale di Castel Cerreto.

Per un turista il blu è sempre blu.
Per quelli, invece, che cercano di vivere in pienezza la propria terra e si prendono la briga di guardare il cielo, il mare, accarezzare con gli occhi il paesaggio, è facile scoprire i blu grigi, i blu scuri, le mille tonalità di una località indimenticabile.

Penso a questo mentre pedalo con l’amico Lucio De Marcellis e e il maestro di mountain bike Dario Ripani, su di un crinale panoramico e ventilato, nonostante il gran caldo.
Sotto di noi lo stupendo mare dell’oasi del Cerrano.
Ripani, appassionato di foto, ci regala in questo servizio alcune belle istantanee.

Il rumore della città, la sua esuberanza finisce in questa campagna, dove il silenzio pare caderti addosso e c’è tutto il tempo da dedicare a se stessi.
Il traffico è quasi nullo.

I membri del Coordinamento ciclabili teramane hanno ribattezzato questo percorso il Crinale degli Acquaviva, dal nome della potente famiglia che ha governato per molto tempo i borghi di mezzo Abruzzo teramano, scrivendo innumerevoli pagine di storia.

Siamo partiti di buon’ora da Pineto attraverso la ciclabile costiera che tocca anche l’Area Marina protetta della Torre di Cerrano, puntando verso Mutignano, piccolo paese d’arte a circa sei chilometri.
Il panorama sul mare e sui piccoli casali sottostanti è fantastico.

Il borgo si caratterizza per i suoi murales sulle facciate delle case aventi per tema scene di vita rurale.

Una sosta al bar e subito si prende confidenza con gli anziani del posto. L’intraprendente custode del campo sportivo funge da guida turistica spontanea.

Fa notare la lapide con i nomi delle vittime delle bombe inglesi che, dalle altitudini di Atri sparavano contro i tedeschi posti a valle dell’abitato.
Alcune bombe purtroppo colpirono nove cittadini. Era il 24 marzo 1944.

Ripartiamo percorrendo la via principale, ancora una sosta per le foto nella parte alta del paese dove c’è una piana con una minuscola ma poetica pineta, quindi discesa fino a riprendere la strada principale SP 28 che sale nella città ducale di Atri.

Chi ha la bici da strada pedalerà qui, chi possiede una mountain bike potrà percorrere l’ombreggiata stradina brecciosa che s’imbocca appena cento metri a destra del bivio.
Traffico zero.
 Siamo ormai su Via di Fonte Canale e scorgiamo ai margini della strada un caratteristico lavatoio con numerosi archi gotici e vasche: per i dovuti approfondimenti www.comune.atri.te.it

Entriamo nella splendida città d’arte di Atri attraverso l’antica porta San Domenico (sec XVI) e, subito a destra, notiamo l’interessante facciata della chiesa di San Giovanni Battista (sec XIV).
Poco più avanti il belvedere, con vista sull’Adriatico e sui Monti Gemelli.

Una viuzza ad angolo e siamo catapultati nella bella Piazza Duchi d’Acquaviva con il caratteristico e omonimo palazzo.

Qui incontriamo Adriano De Ascentiis, direttore dell’Oasi WWF dei calanchi di Atri che ci accoglie nel centro informazioni per accompagnarci in una breve visita alla vicina oasi, circa un chilometro fuori il paese.

Ma ecco una bandiera, attaccata dietro una bici.
È quella gialla della Fiab.
Tante due ruote colorate al seguito; signore e signori di mezza età. Il meno giovane ha settantatré anni.

Il gruppo è costituito da veneziani; ci raccontano che ogni anno pedalano in una zona d’Europa.
Questa volta hanno scelto con soddisfazione l’Abruzzo.
Pernottano a Roseto e oggi sono arrivati qua, nel borgo storico.
Hanno bici tutto sommato normali, con qualche cambio di velocità. Eppure sono riusciti a inerpicarsi fino a 450 metri circa di quota.
Approfittiamo per scattare festosamente delle foto.

È la conferma che, la salita dal mare alla città degli Acquaviva, è fattibile da tutti quelli che hanno un minimo di allenamento, indipendentemente dall’età.

Ci rechiamo nel centro dell’Oasi dei calanchi per una breve visita.

La vista spazia dall’Adriatico alla Majella e al Gran Sasso.

Una breve pausa per un panino e subito riprendiamo a pedalare, in lieve saliscendi, sul Crinale.
Da qui si gode una vista a 360°.
Da queste parti le numerose aziende vitivinicole offrono interessanti visite turistiche.

Riprendiamo a pedalare verso il suggestivo paese di Cellino Attanasio, in grado di generare un incontro emozionale tra patrimonio storico-artistico, peculiarità artigianali ed enogastronomiche.

Fortunatamente gli operai sono al lavoro per sistemare l’aspetto delle mura esterne, lato sud, dopo i recenti lavori di allargamento della piazza soprastante.
Pedaliamo nelle vie interne.

Sono molto affascinanti alcuni scorci sui torrioni e sulle mura con merlature.

Dopo la pausa al bar di nuovo a pedalare.

Ricordiamo che chi vuole percorrere solo un tratto di crinale ogni tanto trova un bivio con relativa diramazione che scende sul fondovalle del Vomano dal quale far ritorno al punto di partenza.

Cermignano è sede di un antico castello fortificato come gli altri borghi appena visitati.
Panoramico il suo belvedere da dove si può ammirare il bacino del Piomba e una scultura commemorativa ai caduti della Patria, opera realizzata nel 1922 dallo scultore teramano Pasquale Morganti.

Da qui si può scendere a Montegualtieri per una visita all’omonima torre triangolare e al vecchio mulino di Maiorino Francia, lungo il Vomano, risalente al 1868.

Prodigiose a vedersi le bocche di uscita dell’acqua e le strutture metalliche per il movimento rotatorio delle macine.

Altra meta interessante è Penna Sant’Andrea, il paese del Laccio d’amore.

Volendo invece proseguire lungo il crinale, ci si dirige verso la località Monte Giove dove, diversi anni fa, furono trovati resti archeologici dell’Età del Ferro.

È possibile effettuare una visita nell’area di Riserva naturale di Castel Cerreto e poi proseguire per Colledoro e scendere a Isola del Gran Sasso.
Poco prima di Colledoro, si può decidere di visitare Castel Castagna o, ancor prima, Ronzano per la visita alla celebre abbazia.

I più allenati invece possono addirittura proseguire ancora lungo il crinale che oltre Colledoro s’inerpica per poggi, scendendo a Castelli nel cuore della Valle Siciliana!




Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".

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Gli articoli sono inoltre pubblicati da Vincenzo Cicconi della PacotVideo , tra l'altro gestore di questo blog, su:
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