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martedì 11 giugno 2013

Il miracolo della Madonna d'Appari a Paganica.

“… quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”. (Galati 4, 4-5)

I tornanti, incassati nella pietra, filano via verso L’Aquila con pareti alte dai fianchi lisci e levigati e forre profonde scavate dall’acqua.

Sul piccolo piazzale, a pochi tornanti dal borgo antico di Paganica, uno di quelli più sconvolti dal terremoto di aprile, mi attende il santuario della Madonna di Appari.

“Scrivilo pure che qui non si tratta di un miracolo creato ad arte per scopi turistici. La Vergine Addolorata, con il figlio morto, è apparsa, eccome”.

E’ molto più di una semplice fede quella di Rocco Bizzarri, vissuto lunghi anni ad Assergi e oggi settantenne scampato al disastro.

“La piccola pastorella Maddalena, intorno al 1400, fu così turbata da questa divina presenza da riuscire a convertire in breve tempo l’intero paese di Paganica”.

Con fede immensa, il popolo innalzò un’edicola incastonata nel masso e un piccolo tempio con una rustica stanzetta dove un romito pregava, cibandosi di erbe e dormendo su di un inospitale pagliericcio addossato alla parete rocciosa.
Il letto incavato del torrente Raiale oggi è poca cosa, ma un tempo, la forza devastatrice delle acque aveva aperto un varco tra i massi da dove riusciva a passare solo un cavaliere in groppa al suo animale.

L’erta mulattiera che porta in paese attraverso rovi, felci e, più avanti, un bosco ceduo ben descritto dai cartelli del Parco Nazionale Gran Sasso Monti della Laga era, un tempo, itinerario consueto ai carriaggi e ai quadrupedi.
Gli antichi attraversavano questo luogo impervio con muli carichi di grandi some che pencolavano paurosamente verso la ripa.

La piccola chiesa, con il suo campanile a vela dai bronzi abbruniti, è stata sempre meta di fedeli, scalzi e oranti che, dal sagrato del tempio fino sopra l’altare in pietra, scioglievano il loro voto, trascinandosi in ginocchio e ferendosi con gli spuntoni aguzzi del pavimento in viva roccia.

Scopro attraverso l’obiettivo della mia Nikon, sulle pietre rustiche del campanile, quello che si potrebbe definire “l’ingenuità popolare”: due feticci e mani aperte a impedire l’avvento del Male e tenere lontane le ombre inquiete che si credeva razzolassero in mezzo a queste aspre lande.


La chiave cigola nella toppa della serratura, la porta si apre e la luce penetra, attenuando l’oscurità dell’interno.

Arte insospettata a profusione, la stessa che ispirò il drammaturgo Antonio Di Jorio per una sua opera pastorale da un libercolo di Giuseppe Garofalo.
Una serie stupenda di pitture, miracolosamente illese dopo il possente sconquasso.

Le scene raccontano l’incoronazione della Vergine, l’Ultima Cena fino alla Passione e Morte di Cristo, in un crescendo che giunge all’ammirazione per l’organo ottocentesco, recuperato dalla Sopraintendenza alle Belle Arti non molti anni fa.

E’ tempo di ripartire.

Il sole quasi si spegne rifrangendosi sulle scacchiere brunite dei coppi di Assergi.
La macchina vorrebbe mettere il pilota automatico e volgere a ovest, verso il lago di Sinizze.

È tempo, però, di dedicare parte del vagabondaggio alla mia provincia, quella teramana.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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