Gli speroni rocciosi si susseguono come quinte teatrali.
In lontananza, sotto le punte acuminate della montagna e la vegetazione che assedia le povere rovine del castello del re Manfredi, le pietre monche sembrano guardiani orgogliosi della loro storia.
In cielo ci sono buona parte dei colori del mondo sparsi nella dinamicità della nuvolaglia che transita in alto.
Sono riflessi di magia che lasciano nel cuore impronte indelebili.
La geografia dell’abbandono ha un suo fascino.
Si nutre di pietre smozzicate, di erba cipollina spontanea, di piccoli graffiti maleducati lasciati dallo strusciare degli zainetti.
Ogni cosa è immobile, pare lasciata lì per caso.
Anche la piccola Barbie senza testa che spunta in mezzo ai rovi.
Sulle scale di un balconcino mezzo crollato, c’è anche un quaderno ingiallito dal tempo, con sopra raffigurato un drago sputa fuoco.
Sono piccoli reperti di una esistenza normale che non c’è più.
E’ facile farsi prendere da una sorta di sindrome di Stendhal per la suggestione di luoghi feriti, un tempo ricchi di gente e di commerci.
È bello immaginarsi archeologo in movimento all’interno di un paese perduto, tutto preso ad usare al meglio i cinque sensi.
Non manca la mandria di pecore e montoni a completare il tratto bucolico di un paesaggio tenero che aiuta a trovare la giusta dimensione della vita e delle cose.
Il pastore non è il solito macedone.
È un vecchio allevatore del luogo.
Mi chiede come mai visito le rovine del paese.
Crede che stia cercando qualcosa.
Ha la vocina arrotata da bimbetto di quasi ottant’ anni. Blatera con dialetto stretto parole per gran parte indecifrabili.
Mi spaventa l’idea che, accanto a se, accarezza il pelo bianco e folto di un cane pastore dallo sguardo truce.
E se decide di lanciarmelo contro?
Invece, dalla tasca del pantalone liso, caccia il ritaglio ingiallito del giornale di cui pare fiero come per un vecchio diario.
Mostra l’articolo tagliuzzato dove campeggia la sua foto datata 5 febbraio del 1959.
Allora lo avevano intervistato i giornali locali dell’epoca e lo definivano già l’epigono dei pastori che non vogliono scomparire.
Capisco che lui vedendomi con macchina fotografica al seguito, spera in cinque minuti di notorietà su qualche rivista.
La voglia di mostrarsi non ha età.
Si nutre di superbia, di orgoglio, di apparenza.
È l’alfa e l’omega delle esistenze.
Mi chiedo se davvero questo anziano montanaro abbia il pallino del green washing, se cioè dedichi interessi e azioni a tematiche ambientali per farsi perdonare magari uno stile di vita non sempre a prova di sostenibilità.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano recitiamo ogni giorno nelle nostre preghiere.
Ce lo aspettiamo sicuramente fragrante con una bella crosta e una mollica compatta e spugnosa.
Non di certo sogno questa ciabatta quasi ammuffita, sulla quale l’uomo mi piazza una fetta gigante di pecorino appena tolto dall’olio.
Capisco che il fornaio dista almeno dieci chilometri, ma il pane appare immangiabile.
Il vino poi che accompagna il cibo, sa di aceto misto a olio di ricino.
È quasi imbevibile ma l’uomo si è piazzato davanti alla mia figura e mi tocca trangugiarlo per non offenderlo.
Cerco di evitare smorfie per il sapore quasi disgustoso, riempiendo la bocca di formaggio, quello sì buono da morire.
Il vecchio pastore ha voluto mi fermassi a casa sua.
Dietro l'abitazione c'è un grande slargo dove i cavalli sono in libertà.
Una piccola abitazione, carina, bianca di calce, adatta forse più a un paesaggio di mare, con il suo orticello dalla terra indurita dal vento freddo che spira per gran parte dell’anno.
A lato della strada c’è una Mercedes, vecchia almeno quanto il suo proprietario.
È uno di quegli esemplari rari a vedersi, con la calandra del radiatore ampia e imponente che sembra una facciata di condominio.
È sulla strada del tuo ritorno la mia casa, mi ha detto, ho vecchie foto che ti piaceranno, scattate da mio padre molti anni fa.
Strano, penso, che sin da quei tempi si pensasse a costruire immagini, intenti come si era alla dura vita dei pascoli.
Poi capisco che tutti noi immaginiamo i pastori, i montanari, come gente senza vita, senza famiglia, ricordi, senza una minima vita sociale.
Ci siamo fermati nella considerazione a quando erano allontanati e reietti, ritenuti impuri e lasciati vegetare tra animali, squallore e sporcizia.
Evidentemente non è così e non lo era più già negli anni’60, quelli del boom economico e del grande sogno italiano.
Dalle pagine dell’album impolverato che l’uomo fa scorrere, passano immagini fantastiche, in bianco e nero d’epoca, alcune seppiate.
Una raffigura la famiglia rivestita, in gran spolvero che si reca a Valle Castellana per la grande fiera del bestiame, l’altra narra la carovana di uomini e animali che parte per la transumanza in terra di Puglia.
Ancora uno scatto che celebra la mamma con, sopra la testa, la conca dell’acqua e, sul braccio sinistro, il bimbo quasi appeso al suo arto.
Un’altra immagine vede i patriarchi della famiglia in stivaloni e con prole ai piedi, fuori dalla stalla mentre la testa di un bue spunta dietro la grande porta di legno e il più piccolo dei figli che piange fino a strapparsi la bocca.
Mamma mia, non ho scoperto un vecchio pastore.
Quest’uomo è un barbaro sognante.
Per un momento il vecchio sembra commuoversi, sicuramente si è intenerito, bucando la scorza burbera e possente della quale si fa scudo per difendersi da immaginarie intrusioni dall’esterno.
Poi, come animale a sangue freddo, riprende il suo stato naturale di rude corteccia.
Rifiuta con un perentorio no la mia proposta di pubblicare le foto.
Ha paura che non gliele restituisco.
Come sono lontane le città caotiche di Teramo e Roseto, relitti post industriali con i loro paesaggi di gru coi bracci penzoloni su di palazzi incorniciati dal cielo.
In questa gola di poche anime, tagliata in due da una strada erta, tra coni verdi che paiono mettere “radici nell’aria” tutto è drammaticamente bello ma anche difficile.
Anche nelle giornate più limpide resta appesa in cielo un’idea di temporale.
Quando lo saluto ho in corpo un paio di bicchieri del suo vino purgante e due fette del cacio che tornano su dallo stomaco, urlando fantastici “bee, bee”.
Nel frattempo si è alzato il vento forte.
Gli alberi si piegano ad ogni folata e quasi toccano terra con la punta.
Per fortuna che non devo piazzar tenda.
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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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