Casale San Nicola un tempo era un villaggio delizioso, piantato magicamente proprio sotto la scenografica e gigantesca parete del Corno Grande, il mitico Gran Sasso, montagna regale degli Appenini con il suo precipizio di oltre 1400 metri.
L’ambiente, la testa della vallata Siciliana, tra le più verdi d’Abruzzo, era semplicemente grandioso, indimenticabile per chi percorresse i tanti sentieri ameni tra boschi e rocce aguzze.
Gli occhi che, per chilometri prima, si erano addolciti su profili di campagne, colline arcaiche e greggi, si riempivano di creste monumentali.
Poi, un giorno poco bello, gli uccelli smisero di cantare e il fiume Mavone parve fermare il gorgoglio delle acque.
Un attimo di silenzio e, all’improvviso di colpo si materializzarono, come un incubo in fase rem, grossi camion pieni di bitume, decine e decine di uomini in tuta e casco, ingegneri in giacca e cravatta armati di regoli e attrezzature infernali per rilevare le pendenze del terreno.
Rumori assordanti coprirono le antiche melodie dei boschi, i trilli gioiosi dei volatili e i fischi dei rapaci a caccia.
Eppure la montagna dovrebbe essere lasciata nella sua pace eterna.
Il progresso non ammette deroghe.
Quando arriva l’uomo qualche volta fa del bene, molte altre fa del male.
Fatto è che, da allora, questo luogo delizioso a pochi chilometri da Isola del Gran Sasso e il frequentato santuario di San Gabriele, ha perso gran parte della pace che si godeva da secoli, pagando un grosso dazio al progresso.
Un mondo quasi scomparso tra crolli di pietre dal paretone soprastante, piloni giganteschi che si sono insinuati tra le case, soglie invase da sterpi e il dramma dell’esodo di molti verso luoghi più ospitali che trasuda da alcune abitazioni abbandonate.
A Casale San Nicola nessuno ha dimenticato!
Tutti ricordano ancora con emozione quando, in piena estate, anni fa, si staccò un costone di notevoli proporzioni dal Corno Grande a 2800 metri, alla base del quarto pilastro.
Come tutte le montagne anche il Gran Sasso è oggetto di un continuo processo di erosione.
Ma una spaccatura in movimento come quella non si era mai vista.
Una nube di detriti oscurò la valle, creando il panico tra gli automobilisti fin dentro l’autostrada, il cupo rumore che terrorizzò la gente del posto, qui lo ricordano tutti.
La frana segnò irrimediabilmente l’imponente massiccio del Gran Sasso creando una traccia indelebile che è visibile distintamente e stringe il cuore di chi ama il “gigante che dorme”
Ormai è sempre un’avventura percorrere qualsiasi sentiero che passi sotto il “paretone”.
Sopra la testa degli abitanti, auto di grosse cilindrate, tir e bus diretti da e per Roma attraverso Teramo e L’Aquila sfrecciano come razzi.
Il traffico scorre veloce e puzzolente per infilarsi o per uscir fuori dal grande tunnel di oltre dieci chilometri che collega velocemente le due province.
Gli idrocarburi rilasciati dai tubi di scappamento, che notoriamente volano bassi, scendono dai piloni sotto le abitazioni avvelenando lentamente i pochi abitanti che non hanno voluto rinunciare a vivere nel luogo dove sono nati.
Pensare che il borgo e i paesi vicini un tempo contavano un così gran numero di residenti al punto che qualcuno aveva anche proposto di spostare la sede comunale di Isola nella ridente Cerchiara, qualche chilometro a nord di Casale.
Si divisero i locali allora tra chi non voleva il trasferimento e chi, invece, lo auspicava fortemente.
Oggi una delle poche attività rimaste è un piccolo albergo alle porte della città che vive di turismo escursionistico per due, tre mesi l’anno.
Casale San Nicola, d’altronde, è sempre il punto ideale di partenza per le ascensioni dal versante orientale del Corno Grande e qui nel 1875, il presidente del Club Alpino Internazionale, tal Douglas William Freshfiend, in viaggio negli Appennini, disse: “Vorrei morir qui un giorno lontano”, magnificando il minuscolo borgo nella rivista dell’associazione.
Un immenso scenario di vita sospesa proprio come i piloni dell’autostrada.
A volte, amici miei, tutto pare così vicino nello spazio e così lontano nel tempo.
A me è bastato, questo pomeriggio, fare un chilometro sopra il paese di Casale, per ritrovarmi comunque, in un autentico santuario della natura, ai piedi di una conca circondata da alte montagne che sembrano ciclopi di pietre.
Ho preso un permesso di due ore a lavoro.
Avevo un gran bisogno di pace.
Io dico sempre a chi non si regala mai una camminata in montagna, che così facendo perde il meglio della vita.
È qui, davanti alla grandiosità del creato e del suo Creatore, che ridimensioni tutto di te stesso, torni a prestare attenzione al quotidiano, riesci a cercare nell’immensità il piccolo, la semplicità della quotidianità che, nella vita di tutti i giorni, perdiamo inesorabilmente.
Più cresce la pendenza, più aumenta la lentezza che aiuta a pensare, a rilassarsi, a vivere alla ricerca, come ben racconta lo scrittore Erri De Luca, del segreto della bellezza movente di tutte le forti pulsioni dell’animo umano.
Credetemi, la possibilità di puntare all’infinito verso spazi senza ostacoli, non ha prezzo, come suggerisce la pubblicità di una nota carta di credito!
Il panorama è da urlo.
La valle col fiume Mavone è scomparsa dietro un paio di curve, le case dimenticate, nessuna anima viva se non due ardimentosi in sella a un poco stabile parapendio a sfidare tutte le leggi di gravità, in alto nel cielo blu sopra i burroni.
“Habitare secum”, soleva dire San Benedetto da Norcia, abitare con se stessi, con la propria solitudine, questo cerca l’uomo, questo cerco io.
Nel bosco che lambisce le pendici delle vette orientali del massiccio Gran Sasso, l’aria pare pulita, corroborante.
Le pietre della mulattiera incutono una sorta di rispetto reverenziale al solo pensiero di quante persone l’abbiano calpestate, nel corso dei secoli quando questa era l’unica via di collegamento con la pianura.
Gli occhi visitano, avidi, gli anfratti intorno alle vette.
Si distingue tutto in una giornata limpida come oggi.
Riesco anche a individuare il terrazzo di tappeto erboso dove secoli fa si ergeva il monastero che raccoglieva le preghiere di circa una trentina di frati.
Pare fosse un’ importante dipendenza della nota abbazia di Farfa, pochi chilometri da Rieti sulla via Sabina.
La presenza di questo luogo sacro, oltre dieci secoli fa, oggi è messa in discussione da alcuni studiosi.
Diversi anni fa, comunque, proprio nel cuore del terrazzamento sotto il Corno Grande, fu scoperto una specie di grosso buco dentro il quale giacevano molte ossa e teschi umani.
Si disse che si trattava di un “carnaio” , una botola sotto il pavimento della chiesa dove si usava seppellire i religiosi che nascevano al cielo.
Il complesso architettonico non doveva essere imponente ma sicuramente regalava fascino, data la felice posizione circondata da vette maestose e una natura sontuosa.
I frati, direbbe Mauro, il mio caro amico bolognese ateo professo, ne sanno una più del diavolo e i posti dove vivere se li scelgono accuratamente.
Per altri studiosi questo monastero sarebbe nato a causa della riforma eremitica di San Pier Damiani intorno al 1190, forse come pertinenza del monastero camaldolese di San Croce di Fonte Avellana.
Il luogo sacro sarebbe stato abbandonato nel 1300 dai monaci che si sarebbero stanziati nella
sottostante Fano a Corno, monastero di San Salvatore, a causa di dispute poco edificanti sui possessi.
Nella piana verde che sto attraversando, c’è anche un cavallo un pochino malmesso, che beatamente mangia erba.
In fondo alla radura c’è una vecchia stalla abbandonata con il fienile e quel che resta di una greppia per far mangiare dei maiali che sicuramente anni fa si sono trasformati in succulenti prosciutti, salsicce e salami caserecci.
Poco distante ci sono anche dei resti che intuisco sono di un pollaio con un’asse esterna che portava a una minuscola apertura dove a sera rientravano le galline.
Oggi questa costruzione è utilizzata come ripostiglio.
S’intravede l’interno con accanto alla porta cadente, un saccone di iuta.
Lo saggio con le mani, il mio limite è la curiosità!
È pieno di scricchiolanti foglie, credo siano di granturco e la stoffa del sacco è chiazzata di macchie d’umidità.
Più in là s’intravedono pecore gironzolanti in libertà. La mia Nikon immortala una delle sagome animali che per il gioco di prospettiva pare attaccata a un arco di roccia scura con macchie bianche di
neve.
Estasiato dalla corona di cime sopra la mia testa, mi trovo davanti la donna all’improvviso.
Porta con sé una grossa zappa e, per un attimo, un brivido scende lungo la schiena: “E se fosse folle al punto di darmela in testa? Sarà la proprietaria del posto?”.
Mi avvicino con cautela e lei, in dialetto stretto, già sta chiedendomi cosa stia cercando in quel posto isolato.
Ma domando e dico, ho una macchina fotografica, indosso tuta e scarponcini da trekking, cosa vorrebbe rispondessi?
Poi, subito dopo, capisco che era tutta una scusa per attaccar bottone.
La donna, un po’ avanti in età, ha bisogno di qualcuno a cui raccontare una mezza vita.
Scopro, nel successivo quarto d’ora che è vedova più o meno inconsolabile, che il marito l’ha lasciata da sola sul più bello, proprio mentre insieme vivevano di passeggiate montanare e di tranquillità da pensionati.
Sono come pugile tramortito da un poderoso uppercut!
Per chi come me vive nel continuo stress di gente che si accosta allo sportello di un ufficio finanziario per lamentarsi delle tasse esose, delle cartelle pazze, dello stato che non tutela i buoni contribuenti, l’uscita in montagna ha come scopo principale, oltre a godere della bellezza di una natura generosa, quella di vivere il momento magico del silenzio.
Tra mozziconi di frasi gettate qua e là, la donna inizia a raccontare una storia che diventa pian piano interessante.
Indica con il braccio e il dito teso un punto tra le cime lontane e ricorda che il suo povero marito, nelle lunghe camminate in cui la coinvolgeva a forza, l’aveva portata davanti a una grotta gigantesca raccontandole che lì, moltissimi anni prima, era vissuta una donna con i suoi tre figli in condizioni che definire disumane era poco.
Il suo uomo l’aveva abbandonata per fuggire con un’altra donna portandole via, con l’inganno, la proprietà della casa venduta a sua insaputa e quei poveri risparmi di una mezza vita.
Quando l’allora curato del paese si era deciso ad aiutare la misera, destinandole un paio di stanze della casetta annessa alla chiesa, lei rifiutò categoricamente di abbandonare la grotta.
Da lì ogni giorno scendeva in paese per chiedere elemosine di cibo e vestiario per se e i suoi figli.
Una storia che ha dell’incredibile! Sarà vera?
Non ho purtroppo il tempo di arrivare al rifugio Casale San Nicola.
È un percorso completo, bellissimo, dove l’imponenza del paretone del Corno Grande si fonde con le acque di un torrente, le mura di una bella chiesetta isolata dedicata proprio a San Nicola, l’ombra di un bosco secolare e prati estremamente panoramici.
Naturalmente si godono scorci indimenticabili sulla valle Siciliana e la catena orientale del Gran Sasso.
Avrei tanta voglia di rivedere questo rifugio che fu costruito tra gli anni 30 e 40 in una posizione incantevole ma ci arriverei che le ombre della notte già sono scese e non ho con me l’attrezzatura per dormire.
Nella casupola non ci sono bar e ristorante, naturalmente, non vi aspettate un rifugio stile Dolomiti.
Però è un luogo magico dove poter consumare i meritati panini, all’ombra della parete più elegante ed imponente dell’Appennino.
Certo, per intraprendere questa camminata di sette chilometri, è necessario un minimo di esperienza escursionistica, il percorso è sì abbastanza evidente ma i bivi che si incontrano sono numerosi.
La segnaletica scadente e confusionaria, non aiuta certo il profano a districarsi meglio nella fitta rete di sentieri.
C’è anche la possibilità per piedi forti di continuare e raggiungere la sella di Cima Alta, quella che i pigri raggiungono in macchina attraverso la strada carrabile che sale dal piazzale dei Prati di Tivo.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
L’ambiente, la testa della vallata Siciliana, tra le più verdi d’Abruzzo, era semplicemente grandioso, indimenticabile per chi percorresse i tanti sentieri ameni tra boschi e rocce aguzze.
Gli occhi che, per chilometri prima, si erano addolciti su profili di campagne, colline arcaiche e greggi, si riempivano di creste monumentali.
Poi, un giorno poco bello, gli uccelli smisero di cantare e il fiume Mavone parve fermare il gorgoglio delle acque.
Un attimo di silenzio e, all’improvviso di colpo si materializzarono, come un incubo in fase rem, grossi camion pieni di bitume, decine e decine di uomini in tuta e casco, ingegneri in giacca e cravatta armati di regoli e attrezzature infernali per rilevare le pendenze del terreno.
Rumori assordanti coprirono le antiche melodie dei boschi, i trilli gioiosi dei volatili e i fischi dei rapaci a caccia.
Eppure la montagna dovrebbe essere lasciata nella sua pace eterna.
Il progresso non ammette deroghe.
Quando arriva l’uomo qualche volta fa del bene, molte altre fa del male.
Fatto è che, da allora, questo luogo delizioso a pochi chilometri da Isola del Gran Sasso e il frequentato santuario di San Gabriele, ha perso gran parte della pace che si godeva da secoli, pagando un grosso dazio al progresso.
Un mondo quasi scomparso tra crolli di pietre dal paretone soprastante, piloni giganteschi che si sono insinuati tra le case, soglie invase da sterpi e il dramma dell’esodo di molti verso luoghi più ospitali che trasuda da alcune abitazioni abbandonate.
A Casale San Nicola nessuno ha dimenticato!
Tutti ricordano ancora con emozione quando, in piena estate, anni fa, si staccò un costone di notevoli proporzioni dal Corno Grande a 2800 metri, alla base del quarto pilastro.
Come tutte le montagne anche il Gran Sasso è oggetto di un continuo processo di erosione.
Ma una spaccatura in movimento come quella non si era mai vista.
Una nube di detriti oscurò la valle, creando il panico tra gli automobilisti fin dentro l’autostrada, il cupo rumore che terrorizzò la gente del posto, qui lo ricordano tutti.
La frana segnò irrimediabilmente l’imponente massiccio del Gran Sasso creando una traccia indelebile che è visibile distintamente e stringe il cuore di chi ama il “gigante che dorme”
Ormai è sempre un’avventura percorrere qualsiasi sentiero che passi sotto il “paretone”.
Sopra la testa degli abitanti, auto di grosse cilindrate, tir e bus diretti da e per Roma attraverso Teramo e L’Aquila sfrecciano come razzi.
Il traffico scorre veloce e puzzolente per infilarsi o per uscir fuori dal grande tunnel di oltre dieci chilometri che collega velocemente le due province.
Gli idrocarburi rilasciati dai tubi di scappamento, che notoriamente volano bassi, scendono dai piloni sotto le abitazioni avvelenando lentamente i pochi abitanti che non hanno voluto rinunciare a vivere nel luogo dove sono nati.
Pensare che il borgo e i paesi vicini un tempo contavano un così gran numero di residenti al punto che qualcuno aveva anche proposto di spostare la sede comunale di Isola nella ridente Cerchiara, qualche chilometro a nord di Casale.
Si divisero i locali allora tra chi non voleva il trasferimento e chi, invece, lo auspicava fortemente.
Oggi una delle poche attività rimaste è un piccolo albergo alle porte della città che vive di turismo escursionistico per due, tre mesi l’anno.
Casale San Nicola, d’altronde, è sempre il punto ideale di partenza per le ascensioni dal versante orientale del Corno Grande e qui nel 1875, il presidente del Club Alpino Internazionale, tal Douglas William Freshfiend, in viaggio negli Appennini, disse: “Vorrei morir qui un giorno lontano”, magnificando il minuscolo borgo nella rivista dell’associazione.
Un immenso scenario di vita sospesa proprio come i piloni dell’autostrada.
Arrivare a Casale San Nicola:
Pochi minuti dall'uscita autostradale A24 Colledara-S.Gabriele,
via Isola del Gran Sasso.
A volte, amici miei, tutto pare così vicino nello spazio e così lontano nel tempo.
A me è bastato, questo pomeriggio, fare un chilometro sopra il paese di Casale, per ritrovarmi comunque, in un autentico santuario della natura, ai piedi di una conca circondata da alte montagne che sembrano ciclopi di pietre.
Ho preso un permesso di due ore a lavoro.
Avevo un gran bisogno di pace.
Io dico sempre a chi non si regala mai una camminata in montagna, che così facendo perde il meglio della vita.
È qui, davanti alla grandiosità del creato e del suo Creatore, che ridimensioni tutto di te stesso, torni a prestare attenzione al quotidiano, riesci a cercare nell’immensità il piccolo, la semplicità della quotidianità che, nella vita di tutti i giorni, perdiamo inesorabilmente.
Più cresce la pendenza, più aumenta la lentezza che aiuta a pensare, a rilassarsi, a vivere alla ricerca, come ben racconta lo scrittore Erri De Luca, del segreto della bellezza movente di tutte le forti pulsioni dell’animo umano.
Credetemi, la possibilità di puntare all’infinito verso spazi senza ostacoli, non ha prezzo, come suggerisce la pubblicità di una nota carta di credito!
Il panorama è da urlo.
La valle col fiume Mavone è scomparsa dietro un paio di curve, le case dimenticate, nessuna anima viva se non due ardimentosi in sella a un poco stabile parapendio a sfidare tutte le leggi di gravità, in alto nel cielo blu sopra i burroni.
“Habitare secum”, soleva dire San Benedetto da Norcia, abitare con se stessi, con la propria solitudine, questo cerca l’uomo, questo cerco io.
Nel bosco che lambisce le pendici delle vette orientali del massiccio Gran Sasso, l’aria pare pulita, corroborante.
Le pietre della mulattiera incutono una sorta di rispetto reverenziale al solo pensiero di quante persone l’abbiano calpestate, nel corso dei secoli quando questa era l’unica via di collegamento con la pianura.
Gli occhi visitano, avidi, gli anfratti intorno alle vette.
Si distingue tutto in una giornata limpida come oggi.
Riesco anche a individuare il terrazzo di tappeto erboso dove secoli fa si ergeva il monastero che raccoglieva le preghiere di circa una trentina di frati.
Pare fosse un’ importante dipendenza della nota abbazia di Farfa, pochi chilometri da Rieti sulla via Sabina.
La presenza di questo luogo sacro, oltre dieci secoli fa, oggi è messa in discussione da alcuni studiosi.
Diversi anni fa, comunque, proprio nel cuore del terrazzamento sotto il Corno Grande, fu scoperto una specie di grosso buco dentro il quale giacevano molte ossa e teschi umani.
Si disse che si trattava di un “carnaio” , una botola sotto il pavimento della chiesa dove si usava seppellire i religiosi che nascevano al cielo.
Il complesso architettonico non doveva essere imponente ma sicuramente regalava fascino, data la felice posizione circondata da vette maestose e una natura sontuosa.
I frati, direbbe Mauro, il mio caro amico bolognese ateo professo, ne sanno una più del diavolo e i posti dove vivere se li scelgono accuratamente.
Per altri studiosi questo monastero sarebbe nato a causa della riforma eremitica di San Pier Damiani intorno al 1190, forse come pertinenza del monastero camaldolese di San Croce di Fonte Avellana.
Il luogo sacro sarebbe stato abbandonato nel 1300 dai monaci che si sarebbero stanziati nella
sottostante Fano a Corno, monastero di San Salvatore, a causa di dispute poco edificanti sui possessi.
Nella piana verde che sto attraversando, c’è anche un cavallo un pochino malmesso, che beatamente mangia erba.
In fondo alla radura c’è una vecchia stalla abbandonata con il fienile e quel che resta di una greppia per far mangiare dei maiali che sicuramente anni fa si sono trasformati in succulenti prosciutti, salsicce e salami caserecci.
Poco distante ci sono anche dei resti che intuisco sono di un pollaio con un’asse esterna che portava a una minuscola apertura dove a sera rientravano le galline.
Oggi questa costruzione è utilizzata come ripostiglio.
S’intravede l’interno con accanto alla porta cadente, un saccone di iuta.
Lo saggio con le mani, il mio limite è la curiosità!
È pieno di scricchiolanti foglie, credo siano di granturco e la stoffa del sacco è chiazzata di macchie d’umidità.
Più in là s’intravedono pecore gironzolanti in libertà. La mia Nikon immortala una delle sagome animali che per il gioco di prospettiva pare attaccata a un arco di roccia scura con macchie bianche di
neve.
Estasiato dalla corona di cime sopra la mia testa, mi trovo davanti la donna all’improvviso.
Porta con sé una grossa zappa e, per un attimo, un brivido scende lungo la schiena: “E se fosse folle al punto di darmela in testa? Sarà la proprietaria del posto?”.
Mi avvicino con cautela e lei, in dialetto stretto, già sta chiedendomi cosa stia cercando in quel posto isolato.
Ma domando e dico, ho una macchina fotografica, indosso tuta e scarponcini da trekking, cosa vorrebbe rispondessi?
Poi, subito dopo, capisco che era tutta una scusa per attaccar bottone.
La donna, un po’ avanti in età, ha bisogno di qualcuno a cui raccontare una mezza vita.
Scopro, nel successivo quarto d’ora che è vedova più o meno inconsolabile, che il marito l’ha lasciata da sola sul più bello, proprio mentre insieme vivevano di passeggiate montanare e di tranquillità da pensionati.
Sono come pugile tramortito da un poderoso uppercut!
Per chi come me vive nel continuo stress di gente che si accosta allo sportello di un ufficio finanziario per lamentarsi delle tasse esose, delle cartelle pazze, dello stato che non tutela i buoni contribuenti, l’uscita in montagna ha come scopo principale, oltre a godere della bellezza di una natura generosa, quella di vivere il momento magico del silenzio.
Tra mozziconi di frasi gettate qua e là, la donna inizia a raccontare una storia che diventa pian piano interessante.
Indica con il braccio e il dito teso un punto tra le cime lontane e ricorda che il suo povero marito, nelle lunghe camminate in cui la coinvolgeva a forza, l’aveva portata davanti a una grotta gigantesca raccontandole che lì, moltissimi anni prima, era vissuta una donna con i suoi tre figli in condizioni che definire disumane era poco.
Il suo uomo l’aveva abbandonata per fuggire con un’altra donna portandole via, con l’inganno, la proprietà della casa venduta a sua insaputa e quei poveri risparmi di una mezza vita.
Quando l’allora curato del paese si era deciso ad aiutare la misera, destinandole un paio di stanze della casetta annessa alla chiesa, lei rifiutò categoricamente di abbandonare la grotta.
Da lì ogni giorno scendeva in paese per chiedere elemosine di cibo e vestiario per se e i suoi figli.
Una storia che ha dell’incredibile! Sarà vera?
Non ho purtroppo il tempo di arrivare al rifugio Casale San Nicola.
È un percorso completo, bellissimo, dove l’imponenza del paretone del Corno Grande si fonde con le acque di un torrente, le mura di una bella chiesetta isolata dedicata proprio a San Nicola, l’ombra di un bosco secolare e prati estremamente panoramici.
Naturalmente si godono scorci indimenticabili sulla valle Siciliana e la catena orientale del Gran Sasso.
Avrei tanta voglia di rivedere questo rifugio che fu costruito tra gli anni 30 e 40 in una posizione incantevole ma ci arriverei che le ombre della notte già sono scese e non ho con me l’attrezzatura per dormire.
Nella casupola non ci sono bar e ristorante, naturalmente, non vi aspettate un rifugio stile Dolomiti.
Però è un luogo magico dove poter consumare i meritati panini, all’ombra della parete più elegante ed imponente dell’Appennino.
Certo, per intraprendere questa camminata di sette chilometri, è necessario un minimo di esperienza escursionistica, il percorso è sì abbastanza evidente ma i bivi che si incontrano sono numerosi.
La segnaletica scadente e confusionaria, non aiuta certo il profano a districarsi meglio nella fitta rete di sentieri.
C’è anche la possibilità per piedi forti di continuare e raggiungere la sella di Cima Alta, quella che i pigri raggiungono in macchina attraverso la strada carrabile che sale dal piazzale dei Prati di Tivo.
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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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