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sabato 3 marzo 2012

Ruspe a Martese di Rocca Santa Maria, nel borgo dedicato al dio Marte!

Il paese sorse nel 1600 per accogliere un gruppo di persone costrette a fuggire dal loro borgo natio, “Force”, incendiato da una masnada di briganti.


L’ultima volta che avevo visitato il borgo abbandonato di Martese, puntino indefinibile sulla mappa, pulviscolo di carta geografica nei pressi dell’abitato di Rocca Santa Maria, era sempre pieno inverno.

Ricordo il vento e la luce prodigiosa di quella domenica.

Il minuscolo paese, affogato nella sterpaglia tra topi e serpenti, invitava a un eremitaggio perfetto in simbiosi con la terra.

Le magiche sensazioni provenienti dal passato si univano all’emozione trasmessa da un paesaggio incredibilmente bello.


Le famose faggete della foresta martese esibivano colori vividi nonostante la stagione del riposo.

Gli alberi da queste parti, si sa, crescono lentamente, senza fretta.

La loro fibra elastica acquista vigore e si slancia verso il cielo solo dopo aver costruito fondamenta solide e robuste.
Meraviglie vegetali che fanno pensare ai “Pilastri della terra”, il romanzo di Ken Follett.

In paese, l’architrave di una finestra con la data del 1772, apriva uno squarcio sulla storia.

Tra un sipario e l’altro di nubi comparivano, ciclopi di pietra, le creste del Pizzo di Moscio e del monte Gorzano.
Persino le case sventrate e ingiuriate dal tempo, il pugno di tetti crollati e i monconi di mura, destavano ammirazione.

Le vecchie abitazioni, irrimediabilmente mute, di una rusticità ancora orgogliosa, continuavano a trasmettere il calore di famiglie ormai scomparse.

Sui rami del vecchio fico alle porte del paese, si erano raccolte decine di uccelli selvatici che sparavano trilli incredibili e schiamazzavano come vecchie comari che riempiono del loro chiacchiericcio una piazza.
 
Ricordo che pensai alle parole del giornalista Paolo Rumiz che, parlando di rovine, ebbe a dire che saranno pure sinistre ma piene di storie e che i morti fanno sempre meno paura dei vivi.

Quell’essere in una terra di nessuno, quel visitare uno spazio dove non era rimasto nessuno ti eleggeva cacciatore di segreti.

Che bello che era lo sbecco di un comignolo che resisteva su di un tetto semi crollato in mezzo a un ginepraio irto di spine e cespugli di more.

Pareva quasi che gli antichi inquilini proteggessero la loro privacy in questo bazar impazzito di valli e cime.
Tornarci ora e trovare le misere case imbracate come unico cubo di tufo è stato un colpo al cuore.

Martese non è più rassegnata all’abbandono.

Oggi è interamente in ristrutturazione.
Ruspe, gru e operai a lavoro squarciano il silenzio di lunghi anni.

Anzi squarciavano perché è anche vero che i lavori sono fermi da alcuni mesi.
Le maestranze che hanno realizzato l’albergo diffuso di Santo Stefano di Sessanio, vorrebbero mutuare anche qui la fortunata esperienza aquilana ma i problemi sono tanti.

Prima o poi comunque le mura screziate di marrone con pietre in ocra di tinte ammuffite dal tempo, lasceranno il posto a nuove abitazioni.
E da queste parti, inglesi e americani saranno di casa.

Speriamo che saranno salvati alcuni particolari stilistici di tutto pregio come l’arco che si apriva sulla strada maestra e che si preservino le tecniche costruttive e i materiali tipici del luogo.

Perché, il punto cruciale è: riusciranno le nostre montagne a conservare la propria identità, le proprie radici?




Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".

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