L’antica consolare Salaria che unisce Roma con le coste del piceno, è un autentico “museo diffuso”, tra i confini del parco nazionale Gran Sasso Monti della Laga e quello dei Sibillini.Parliamo di un itinerario da vivere tra castelli, rocche, conventi, borghi antichi e paesaggi di roccia, l’antica “via dei pellegrini” che portava i fedeli al santuario mariano di Loreto, snodo sacro tra il convento della Madonna del Lambro di Montefortino e la via dei farfensi.
Il paese da visitare assolutamente è Arquata del Tronto.
Qui il folclore è legato ai Sibillini, magici monti dove, da sempre, la fantasia popolare ha individuato inquietanti presenze, quali la Sibilla e la Fata Alcina.
Alle più antiche leggende si sommano recenti memorie storiche; per questo, nel mese di agosto, è celebrata la presenza della Regina Giovanna nella Rocca di Arquata e la discesa delle Fate a Pretare.A pochi tornanti, c’è il piccolo villaggio di Quintodecimo, un tempo importantissimo comune che raggruppava fino alla metà dell’Ottocento, sette frazioni di montagna, inerpicate su creste rocciose e castagneti rigogliosi. Al di fuori del piccolo centro sono evidenti i resti di uno dei ponti più antichi dell’Abruzzo e delle Marche.
Il manufatto, che aveva resistito alle intemperie del tempo e l’incuria dell’uomo, fu divelto da una delle proverbiali piene del fiume Tronto.
Salendo sopra il paese, nel sottobosco, è facile trovare piazzole, un tempo utilizzate, soprattutto nel periodo fra le due guerre, per costruire carbonaie.I più vecchi ricordano che, nella tarda primavera, dal bosco salivano fili di fumo provenienti dal foro superiore delle caratteristiche strutture a cono che erano innalzate da questa gente rude che si assoggettava a una vita durissima di stenti.
I boschi hanno contribuito, prima dell’avvento del petrolio e del gas, a rendere facile la combustione per far muovere locomotive e riscaldare le case.
La produzione del carbone era favorita anche della povertà di risorse che il territorio offriva.
Il mestiere del carbonaio è scomparso e non rappresenta un’attività lucrativa ma rimane una risorsa culturale che affonda le radici nel cuore delle popolazioni locali.I carbonai partivano nei mesi di settembre e ottobre con maglie e calzettoni di lana dentro un sacco di iuta, qualche manico di legna per l’accetta, la roncola, la lima e un pezzo di lardo che con polenta e pane, costituiva il pasto dell’artigiano.
Erano uomini che avevano imparato a capire gli umori e le collere dei venti, che si fermavano solo per mangiare quel pezzo di pane povero seccato in madie di legno e che trascorrevano le notti in piccole capanne di frasca e terra, capostipiti delle famose “pinciare”.

Uomini che molto somigliano a quelli delle Alpi, perché i loro volti sono uguali in qualsiasi sperduto angolo di montagna si trovino.
L’uomo e la natura hanno convissuto per secoli in simbiosi perenne e il carbonaio è stato parte integrante del bosco durante la composizione del carbone, confondendosi nell’insieme con il suo viso nero di fuliggine e terra in un incredibile contrasto tra le tinte monocrome di questi sguardi fieri e i colori della natura.
La tristezza in fondo agli occhi per una vita di stenti, che si contrappone alla felicità del canto armonioso degli uccelli nel bosco.
Sembra tutto una favola.
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Articolo redatto da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di due libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat".
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