Esistono modi di viaggiare diversi: uno è quello della velocità, della prestazione, del tempo che stringe, del paesaggio che scorre veloce e distante da dietro i finestrini.
Un altro è quello dell’attenzione, della curiosità, del rapporto con luoghi, gente, natura.
Quello meraviglioso degli odori, dei sapori, del tempo che scorre piano come un lungo fiume tranquillo.
Quello dell’emozione.
Quello del sorriso.
Muoversi a piedi vuol dire mettere da parte per un po’ l’ansia, per immergersi fino in fondo nell’emozione del viaggio, conoscere il mondo toccandolo, gustandolo, ascoltandolo.
Questo è un racconto nato sul campo, ma è anche un manuale per mollare tutto e prendersi un tempo per tornare in sé stessi, per ritrovare lo stato d’animo che è dentro ognuno di noi.
Siamo tutti potenziali vagabondi. Solo che spesso lo dimentichiamo.
Bandiamo la fretta, entriamo nella vita a tempo pieno. Perché, chi vive vede molto, ma chi viaggia, amici miei, vede di più!
Gli alberi sfilano veloci nel riquadro del finestrino. Quando il treno rallenta, sbuffando, sembra che si ammassino l’uno sull’altro divenendo un’indefinita massa verde e marrone.
Nel piccolo scompartimento siedono due donne enormi, una di fronte all’altra.
La più giovane delle due è intabarrata nonostante non sia freddo, in una sciarpa nera che l’avvolge come pece.
Inforca e toglie dal naso i grossi occhiali neri. Non emette neanche un sibilo.
Guarda fisso un punto indefinito del suo orizzonte e pare curva sotto il peso di non si sa che.
Le poltrone di seconda classe paiono nicchiare per lo sforzo di mantenere le grazie debordanti delle due. Se non fosse per la loro enorme mole, il vagone sarebbe quasi vuoto.
È un evento straordinario che mi ha fatto infilare in questo treno.
È stata la voglia di assaporare la natura come si faceva un tempo.
Alzo il volume dell’ipod dal quale escono leggiadre le note della colonna sonora del famoso film “Mission”.
La musica crea la giusta atmosfera per una giornata in ambiente.
D’improvviso, ecco il treno si ferma dopo un grosso sobbalzo all’indietro che quasi mi fa cadere il diffusore musicale.
Nessuna voce dall’altoparlante, nessun avviso.
Rimaniamo così, fermi per un tempo che mi pare lunghissimo, in mezzo alla natura nel cuore d’Abruzzo.
Nella piana di mezza estate, che si estende ai piedi di una serie di piccoli rilievi, i vigneti a perdita d’occhio colorano di verde intenso, rosso maculato e giallo dorato tutto il visibile.
Me li immagino in inverno, con il loro aspetto sofferto e contorto, viti scheletriche dai piccoli tronchi avvinghiati a se stesso in forme spettrali che spuntano da un manto nevoso.
Poi, li vedo nella veste primaverile, con lo spettacolo ineguagliabile della fioritura.
In alto, un borgo antico mostra con orgoglio la mole di una torre, i poveri resti di un castello, le case fortificate con un campanile che sembra una matita aguzzata da poco.
Ripenso alla storia artistica di un amico pittore, il teramano, Franco Tommarelli.
Munito di enormi fogli bianchi, da anni porta su schizzi, tutto quello che vede: paesaggi, prati, fontane, sprazzi di vita semplice.
Grazie ai suoi dipinti del cuore che realizza tenendo lo sguardo fisso sulle montagne che alimentano gli alberi, colonne dritte di un tempio vivente, si ha la sensazione di sentire i profumi del bosco, l’umidità di un muro scrostato o gli odori persistenti di un gregge al pascolo.
Ecco, immaginarlo qui, perso tra queste valli sormontate da montagne a dar di pennello in un magico acquerello, riempie il cuore.
I nostri ragazzi oggi hanno il loro mito in un eroe della pedata o in un cantante dall’ugola arrangiata. Il mio esempio in terra, è Bruce Chatwin.
Non è un calciatore dell’Inghilterra, né un attore emergente.
È stato uno dei più controversi romanzieri del Regno Unito nel novecento.
Lo amo per quel che è stato: uno dei più grandi viaggiatori.
Certo fu uno dai comportamenti bizzarri, nient’affatto bello e, dicono, peloso in maniera imbarazzante.
Ebbe vita breve, scomparve circa trent’anni fa, ma spese quasi ogni giorno della sua esistenza per girare il globo.
Fu l’archetipo del viaggiatore, camminando verso il mondo e ritorno.
Scrisse fra l’altro che: “l’atto del viaggiare crea una sensazione di benessere, mentre la monotonia del lavoro fisso, tesse nel cervello trame d’inadeguatezza”.
Certo, ha scoperto l’acqua calda!
Vorrei ben vedere chi, potendo scegliere tra viaggiare o lavorare, decida per quest’ultima attività.
Si viaggia per consumare i luoghi con la vista, fotografarli nella memoria.
Il vagabondare attraverso l’Abruzzo è molto di più. È come avere tanti colpi di fulmine in un concentrato di magia declinata in panorami, atmosfere, profumi, tradizioni, testimonianze che il tempo custodisce.
La mia terra è “god’s own country”, è anche la terra di Dio.
I paesaggi sono meditativi e, negli animi sensibili, certi spettacoli della natura aprono un dialogo spontaneo con Dio.
Ma, anche un non credente rimane affascinato a chiedersi da dove venga tutta questa bellezza.
Un incantesimo inutile da immaginare perché assolutamente da vivere
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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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