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domenica 23 novembre 2014

Al settimo cielo!

“Se vuoi arrivare primo, cammina da solo. Se vuoi camminare lontano, cammina insieme.” (Adagio popolare)

Prima di partire stamane ho meditato il libro più piccolo della Bibbia.
Chi legge il “Cantico dei Cantici” attraversa l’amore a tutti i livelli, in tutte le sue molteplici sfumature, di qualunque sentimento profondo si parli: tra uomo e donna, tra Dio e il suo popolo, tra i fratelli in carne, tra gli esseri viventi e la natura.

Colpisce la dimensione della continua ricerca tra due esseri in un amore inteso di complicità, di ricerca l’uno dell’altro, in un legame desiderato, sognato.
Ho un po’ di nostalgia di mia moglie, tanta di mia figlia.

Forse era più indicato leggere Giobbe, avrei attraversato il dolore in tutte le sue sfumature, ma ascoltato inequivocabilmente la Parola di un Dio misericordioso, pronto a dare l’ultima parola di conforto.

Sto pensando che sono belle le figure femminili della Bibbia. Rut, ad esempio, è la straordinaria donna di un popolo odiato da Israele ma che entra in quello ebraico, per diventare nonna di David e ristabilire pace fra i due popoli.

Gli Ebrei leggono questo libro a Pentecoste, il tempo della mietitura.
Quando Dio si rivolge a una donna nell’Antico Testamento, accadono sconvolgimenti.
Anche il Signore soffre a causa loro.

Un tempo la montagna ha avuto una forza di attrazione malefica, un po’ come quella del deserto, landa di desolazione, la stessa attribuita oggi ai buchi neri dello spazio siderale.
La morte arrivava di sorpresa sotto forma di un morso di vipera, di una slavina improvvisa, di un piede messo disgraziatamente dove non si doveva.
E poi, la montagna era il regno dei briganti.
Pian piano, tutto è mutato.
Le cime sono diventate pilastri, colonne del mondo, merletti di vita sotto un cielo scintillante di luci.
Sagome di aguzze piramidi, guglie di pietra dal profondo romanticismo rosa, pinnacoli di roccia fra altopiani, strapiombi, gole, foreste.
E così il “modus deambulandi” è tornato quello di un tempo.

Questa mattina è caratterizzata dal passaggio continuo di gruppi di volatili.
Sul finire dell’estate c’è una strana agitazione, una frenesia inconsulta da parte degli uccelli che iniziano a migrare, sulla rotta che dal lago di Campotosto li conduce ai paesi caldi dove svernare.
Passano sulle nostre teste come minuscoli aeroplani.

Crediamo, tra gli altri, di aver scoperto dei bianconi, piccoli aquilotti specializzati nel predare bisce e lombrichi, planando inaspettatamente.
Molti di essi sembrano essere però dei semplici colombacci.
Oggi ci aspetta una polenta a Campo Imperatore se tutto andrà per il verso giusto.
È quello che ci vuole per riscaldarsi perché sta tirando aria gelida.

Stiamo attraversando la valle più spettacolare del versante teramano del Gran Sasso.
Questo cuneo di terra separa il Corno Grande e il Corno Piccolo dai pilastri verticali del Pizzo d’Intermesoli.
Un paesaggio incredibile, uno straordinario succedersi di habitat diversi: boschi, torrenti, pascoli, ghiaioni.
Ma qui c’è anche una grande storia scritta dall’uomo in lotta con balze, nevi e pareti ripide.
Non parlo solo dei grandi scalatori come il capitano De Marchi, che nel 1574 salì con la guida alpina Di Domenico di Assergi, sul Corno Grande.

Chissà quanti uomini l’hanno attraversata sin dai primi anni del cinquecento quando veniva utilizzata come mulattiera, dai mercanti di “carfagni”, i panni grezzi di lana che insieme ai “cotorni”, spessi calzini da uomo, venivano trasportati attraverso il Passo della Portella per essere venduti nella città di Aquila.


Nel teramano c’erano diverse fabbriche laniere che producevano roba egregia.
La Val Maone era anche attraversata dai pastori che, per il Rio Arno da Pietracamela, portavano le greggi nella conca di Campo Pericoli.
I transumanti raggiungevano la parte superiore della valle, lì dove c’erano le famose “capanne” e le grotte che offrivano ricoveri in caso di tempeste di neve assai frequenti. Massimo mi ricorda che qui a Campo Pericoli, il più grande “pericolo”, l’ha corso proprio l’ambiente.
Anni fa fu proposto un mega insediamento di impianti
sciistici di alta quota.

Il progetto prevedeva un collegamento con la valle del Venacquaro, in una sorta di delirio di cemento che avrebbe trovato una successiva colata nella valle del Chiarino.
colpo mortale per il Gran Sasso che, per fortuna non c’è stato.
Una follia che stava per essere realizzata se non fossero intervenuti, provvidenziali, gli ambientalisti a scongiurare un simile scempio.

Al posto di strade, funivie, skilift, oggi qui pascolano beati, grazie a Dio, i camosci e volteggiano, felici, le aquile.
Che meraviglia, ragazzi!
Montagna severa questo Gran Sasso, ancora più affascinante per chi sa coglierne gli aspetti più integri.

Uno spaccato dolomitico con rocce che appaiono come plastici ed eleganti ammassi creati dalla mano di un gigante, fino a giungere alla stupenda parete nord e alle Spalle del Corno Piccolo.

All’opposto, troviamo i più selvaggi versanti meridionale e orientale del Corno Grande, lavorati in maniera ossessiva, tra profonde incisioni, slanciate guglie, tortuosi canali e sinuose creste.

Stiamo per vivere intensamente la diversità dei due versanti: quello teramano tutto antropizzato con la presenza massiccia dell’uomo, quello aquilano con la brulla piana di Campo Imperatore e i deserti crinali che scendono verso i deliziosi paesi come Santo Stefano di Sessanio, Castel del Monte, Calascio.
Il Passo della Portella è a 2260 metri di altezza.
C'arriviamo abbastanza provati.
La fatica si sta accumulando anche se l’entusiasmo non è scemato nemmeno di un tocco.
Sulla nostra destra svetta il Pizzo Cefalone.
Un passo dietro l’altro.
Dieci, cento, mille orme, il dislivello di poco più di cento metri per raggiungere la sommità sulla quale insiste il Duca degli Abruzzi a 2388 metri d’altezza, è colmato tra vari ondeggiamenti.

Il rifugio è dedicato a un grande
esploratore italiano, Luigi Amedeo di Savoia, duca, per l’appunto, quasi sicuramente uno degli esponenti più amati della Casa Reale.
È una storia di vita complicata, avventurosa, quella del cugino “povero” del più famoso Vittorio Emanuele II re d’Italia.

Tra una spedizione e l’altra in cui si portava con sé un uomo mito della storia dell’alpinismo italiano, Vittorio Sella, finissimo fotografo, il nobile uomo ebbe varie avventure.
Anche galanti, vi assicuro, con donne di alto lignaggio fra cui l’americana Catherine Elkins, desiderata da mezzo mondo.
Luigi Amedeo viaggiò in Alaska, arrivò nel Polo-Nord, in Karakorum, salì il K2 e non disdegnò paesi con mille problemi, come ad esempio la Somalia.
Ma lo sapete? Fa anche freddo. Un freddo boia!
Occorrerebbero i guanti, un giaccone più pesante.
Il sole sta calando e i suoi raggi s’infilano nella vallata sottostante.
Quando arriviamo alla stazione alta della funivia del Gran Sasso, al rifugio Campo Imperatore stanno scendendo le ombre di un raffinato ma gelido tramonto.
 
L’ostello è stato ricavato dagli antichi locali che ospitavano la struttura di servizio della stazione di arrivo della funivia che, ancora oggi, parte dalla sottostante Fonte Cerreto.

Naturalmente all’interno il riscaldamento non funziona!
Rimediamo un’anonima stufa elettrica.
Meglio di niente.

Riequilibrato il sistema termico dei nostri corpi, mentre Massimo chiude gli occhi, decido di dare un occhiata.
Attraversato il piazzale, mi affaccio verso la piana.
Che meraviglia!
In fondo si nota una moto di grossa cilindrata.
È simile a un proiettile colorato, sparato da una parte all’altra del paesaggio.
Deve, certamente, essere una sensazione incredibile.
fruscio dell’aria sulla carenatura, la lingua di strada bianca che corre davanti la ruota anteriore, la linea di mezzo riflessa sulla visiera del casco integrale.

L’albergo è un cimelio storico e lo si capisce anche dalla struttura decisamente sfruttata.
Ospitò Mussolini durante la sua prigionia sulle vette del Gran Sasso.

Da qui il Duce mise un nuovo tassello alla sua vita avventurosa, con una liberazione che la storia ricorda quanto meno rocambolesca.

Sembra quasi di vederli ancora gli alianti dell’aviazione tedesca, il 12 settembre del 1943 alle ore 15,00 circa con gli incursori paracadutisti che circondano l’albergo per liberare il prigioniero eccellente.
Foto e cortometraggio dell’evento hanno fatto più volte il giro del mondo.
Sono parte della storia del nostro paese.

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Tratto dalle pagine del libro di Sergio Scacchia "Il mio Ararat"(La Cassandra edizioni).

Un grazie di cuore all'amico Daniele Machetti per le splendide foto della fioritura di maggio a Campo Imperatore!

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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sabato 22 novembre 2014

L' elogio della pezzata: vita di pastori

“Andarono in giro, coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati- di loro il mondo non era degno!- così vaganti pei monti tra le caverne e le spelonche della terra”. (Ebrei 11,36-38)

Viaggiare a piedi è connettersi con ognuno dei tuoi sensi in un percorso interiore in cui ogni passo assume un valore infinito.

Massimo ha già estratto il suo bel panino con frittata di asparagi, quando in lontananza vediamo un pastore avvicinarsi sempre più con il suo piccolo gregge.


La polvere sollevata dagli animali sfuma il paesaggio come in un sogno.
Riempie il cuore vedere una scena antica in un mondo che ha dimenticato il suo passato.

Tra un boccone e l’altro, l’amico mi fa notare che quest’antica strada romana, tagliata per molti chilometri tra boschi e rupi, portava le torme di pecore e capri verso Senarica e poi giù per la valle del fiume Vomano, fino al mare.
Una sorta di raccordo tra la “Salaria dell’Adriatico” e quella del Gran Sasso che toccava poi la Laga amatriciana.
Basti pensare alle pietre miliari presenti qui e là da Poggio Umbricchio, grumo di case abbarbicate sulla roccia come un astore su di un pendio pronto al volo, giù fino al tempio di Ercole nella zona archeologica della vallata.

Non so se conoscete Fonte Spugna, quell’antico fontanile che trovate in una delle curve a gomito sulla strada Maestra del Parco, pochi tornanti dal bacino Enel del lago di Piaganini.

Ebbene se ci si affaccia di sotto del guardrail, lì dove scorre il fiume, s’intuiscono tracce di sentiero.

L’antica Salaria, secondo il mio amico montoriese, Claudio Foglia, appassionato cultore di quest’antica arteria romana, passa lì dopo essere scesa proprio dal Poggio, località campo sportivo, dove fu trovata la colonnina miliare, per virare attraverso Leognano e fino a Zampitto- Salara, per l’appunto.


Splendido!
Ricordo che quel grande uomo di cultura e amico, Gianmario Sgattoni, prima di lasciarci avrebbe voluto scrivere a quattro mani con me di questa sorta di città santuario sepolta dinanzi al Gran Sasso.
Per lui proprio qui esisteva l’antica “Beretra” di cui Tolomeo scrisse: “città orientale di là dell’Interamnia”.
Forse, come diceva l’abate scrittore del primo novecento, Jean Jacques Christillin, “la leggenda non è poi così lontana dalla verità, ma è semplicemente, la storia non ancora messa a punto”.

Di questi luoghi magici, solenni e misteriosi, il Gran Sasso è ancora pieno.
Vivono di vita propria in un continuo alternarsi di luci, ombre e figure che si confondono tra falsi storici e realtà.
Elementi mescolati che danno poi vita a una sorta di sinfonia poetica, unica, onirica, in un rapporto insondabile tra uomo e natura.

Il pastore rabbonisce il suo scalmanato cane bianco che latra selvaggiamente, mostrando denti affilati e occhi rossi ardenti come carboni.

Porta, sotto al mento, un lungo collare dai chiodi aguzzi per difendersi dai pericoli.
Il latrare del cane fedele si confonde con l’acuto suono dei campanacci.

La bestia infernale pare prendere maledettamente sul serio il suo compito di custode delle pecore.
Queste palle bianche animate, creature sorprendenti dal pelo lungo, appaiono un po’ orsi, un po’ lupi, sono impareggiabili in ferocia e forza.

Quando in montagna, li scorgi comparire sul tuo sentiero con il minaccioso abbaiare, è come se fossi in balia di un leone.
Mentre ringhiano, sei lì a pregare che il padrone delle greggi sia nei paraggi, altrimenti si fa notte!
Anche quando non avvertono minacce verso le greggi, non sembrano mai socievoli.

L’uomo, al contrario, è loquace ed è anche italiano.
Ha le tempia leggermente brizzolate, il colorito sano di chi passa evidentemente molte ore in ambiente, sorriso contagioso e insospettata capacità naturale di comunicare.
Vive non lontano da Tottea, ma nella bella stagione per molti giorni sperimenta una vita quasi nomade. Incredibilmente la pecora è ancora il centro della sua economia, dei suoi pensieri e del lavoro.
Un mondo anacronistico il suo.

Racconta degli aneddoti agro-pastorali, conditi da sussulti di umorismo.
Ricorda quando i pastori di sera transitavano in un paese.
C’era il rito dei pentolini: ogni famiglia, con il suo bel contenitore in mano, faceva il giro dei transumanti per chiedere un po’ di ricotta, il siero da mangiare la sera o da miscelare al mattino con il latte.

Snocciola, addirittura, anche ricette come quella della “pezzata”, piatto transumante che credevo si consumasse solo a Capracotta, nelle montagne del Molise, non lontano dalle vestigia di Pietrabbondante e delle antiche fonderie di Agnone.
Nel borgo molisano ancora lavora l’officina dei fratelli Marinelli, realizzatori delle campane nella basilica di San Pietro a Roma.
La pecora è bollita con erbe aromatiche dei prati alti, profumandola e servendola con zuppa di pane raffermo.
Il pastore schiocca le labbra a far capire la bontà del piatto, apre, poi, la sua povera bisaccia che ha visto giorni migliori ed estrae, con aria soddisfatta, ciuffi di orapi, sorta di spinaci selvatici d’altura e sentenzia che con quelli, la pezzata diventa un lusso!

Chissà perché quest’uomo d’altri tempi che non ha lasciato neanche il suo nome, appare affascinante nel suo puzzo di sudore e formaggio andato a male.
Per Massimo è la sua vita verde ad attrarre.
È una sorta di perenne avventura che alla casa di paese gli fa preferire le greggi, l’ovile, il canto degli uccelli, l’acqua di un ruscello.
È l’incanto di vivere al confine tra le rocce arenarie della Laga e il calcare del Gran Sasso, nella libertà assoluta, libera da schemi predefiniti.
Un qualcosa che ammalia chi, come noi, vive immerso in un mondo che consumandosi fino a farsi male, cerca oggi qualche via di salvataggio attraverso i confini di un’esistenza eco compatibile.
Sono vite semplici, povere, ma autentiche e pienamente vissute.

Questo povero transumante è un monumento alla tradizione.
Tutta la grande vallata ai margini dei monti della Laga è stata per anni conosciuta anche per la produzione di formaggi.

L’uomo è una miniera di ricordi.
Ha un’allegria coinvolgente.
Ride sguaiato, dipingendo, quasi la chiostra dei suoi denti.

Traffica con la sua pipa, la pulisce, la carica, l’accende, spande un terribile odore di tabacco nell’aria.
Un tempo, ci dice, quando si faceva pettegolezzi si diceva: facciamo ricotta!
Ci parla dei padroni, a volte odiosi che affidavano il loro gregge alla povera gente del posto.
I possidenti oltre al salario mensile, di per sé scarso, fornivano lo stretto necessario per sopravvivere.

La dote era: un litro d’olio al mese, un chilo di pane al dì, un chilo di sale per trenta giorni.
Lo strumento principe di questa sorta di baratto, era la “taja”, un regolo in legno su cui si segnavano con tacche, le quantità di pane e altre merci ricevute dal padrone.
In caso di superamento di queste razioni, si scalava il mese successivo.
Nell’ipotesi, molto remota che avanzasse qualcosa c’era il cosiddetto “affranco”, con il calcolo nel salario successivo.

Nel ricordare i pastori, che tornavano in estate con le loro greggi, invadendo le strade come un fiume di lana, il gregge che copriva ogni spazio della strada da dove si scorgevano solo velli, le tante case piene di persone che ora non ci sono più, l’uomo pare quasi sul punto di piangere.


Sembrano tempi incredibilmente lontani da noi quelli in cui si curava febbre con le sanguisughe e i salassi, quando il bucato si faceva con la liscivia, cioè acqua e cenere, quando i fiumi e i laghi erano potabili.

Ricordo che anche la mia povera nonna aveva una convinzione assurda: quando qualcuno stava molto male bisognava uccidere la gallina e preparare il brodo per il debilitato, mentre almeno una di sette vergini, con un bel fazzoletto bianco in testa, doveva recitare con trasporto il rosario.
In realtà il tempo che ci separa da una vita così diversa non è poi tanto.

Mentre l’uomo racconta, penso che lo scrittore latino Catone, oltre 2000 anni fa, ripeteva che per tutti i successivi secoli, la pastorizia sarebbe stata la maggiore ricchezza.
Sappiamo tutti com’è finito il Sacro Romano Impero.
L’Italia del dopoguerra grondava di latte, commerciava in lana, oggi i pastori sono disperati macedoni o piccoli produttori come l’uomo che abbiamo davanti.

Il “Settembre andiamo, è tempo di migrare” di dannunziana memoria suona come un beffa fuori moda.

Pochi sono quelli che ancora cercano di salvare i tratturi, le autostrade dell’antichità lungo le quali si snodavano commerci e transumavano gli armenti.


Ancora di meno coloro i quali cercano di non far crollare piccole chiese disseminate lungo i tracciati. Molti tratti sono ormai ricoperti da erbacce, molti asfaltati o affittati a contadini.
Il mondo è cambiato, qualche volta in peggio.
Chissà perché i pastori sono stati sempre visti con sospetto da tutte le civiltà.
La letteratura sumerica li definiva: “apparenti uomini dalla voce dei cani di prateria”.

Altre cultura li comparavano a briganti.
Gli egiziani ne avevano repulsa.
Per gli ebrei non potevano neanche testimoniare nei processi.
Un mestiere essenziale ma, direi, maledetto.
Eppure furono loro a vedere per primi Gesù nella grotta di Betlemme e dal tronco di Iesse, dal giovane pastorello Davide, che nacque la genealogia del Cristo.

Riprendiamo il cammino in un pomeriggio in cui il sole ha lasciato posto a una spessa nuvolaglia umida, grigiastra.
Il cielo è ora plumbeo, rigato da inusuali strisce rosse.
In un silenzio condiviso c’inoltriamo in un paesaggio di arcadica semplicità. In lontananza sentiamo scampanii di mucche al pascolo.
Nel naso, un acuto profumo di resina proveniente da boschi vicini.

Superati i minimi resti del leggendario abitato di Campanea che resistette alle intemperie del tempo fino al tardo medioevo, incontriamo anche le anonime pietre di quella che un tempo era l’antica pieve di San Martino dove dicono siano vissuti uomini già intorno al I secolo ante Cristo.

Si favoleggia che qui ci fosse già un vero presidio di fede pagana, poi col Cristianesimo la zona divenne una minuscola cittadella dello Spirito, un sito del silenzio e della contemplazione.
Bé, in verità, il silenzio è rimasto.

L’aria sembra ancora intensa di anime, densa e rarefatta allo stesso tempo.
L’aura religiosa un tempo si estendeva fino alla Madonna del monte Calvario di Piano Vomano, creando un culto mariano notevole: quello delle Sette Madonne Sorelle, che coinvolge tutte le statue dedicate alla Vergine Maria che si trovano nei paesi vicini.
È un’antica forma di devozione popolare, in passato molto diffusa nelle aree rurali e montane.
Il culto veniva professato svolgendo pellegrinaggi a piedi nelle chiese disposte entro orizzonti confinanti in modo da vedersi e dov’era presente una statua di Maria Santissima, per sciogliere voti, chiedere grazie, protezione da eventi terribili.
Oltre ad un’area devozionale, il luogo aveva anche funzione strategica per arroccarsi nel caso di un attacco nemico.

Una piccola città in pietra, dalla mirabile strategia urbanistica e una straordinaria posizione geografica, incastonata tra queste montagne.
Pare che uno scrittore del Rinascimento di cui non rammento il nome, parlando di questa cittadella ormai scomparsa, la descriveva così: “lì dove regna il sole che è di tutti e tutto fa crescere e la rovina non sarà mai tale.”

La domanda aperta al cielo è: come può essere diventato tutto così, rovina su rovina?

Una gustosa leggenda tramandata per anni, racconta di spiritelli terribili dal baschetto rosso e facce nere, che occupavano questo luogo: erano i fantastici “mazzamarill”.


Spaventavano le mandrie di vacche e le greggi delle pecore creando disagi a non finire ai pastori.
Occorreva molta fede e ore di preghiera per allontanare questi folletti birichini.
Ancora oggi quando s’incontra una persona di carnagione scura da queste parti si dice “che è nere n’da nu mazzamarill” .
La fama di questi luoghi è anche legata a un non so che di esoterico folcloristico.
Le presenze demoniache potevano essere allontanate solo con la preghiera.
Anche con accorgimenti, per carità.
Tutti, presso gli usci di casa, mettevano, ad esempio, le scope, per far sì che streghe o spiriti maligni, entrando, fossero costretti a contare uno per uno i fili, senza riuscire a venirne a capo entro l’alba.
I bambini, che spesso avevano problemi digestivi a causa della poca igiene, venivano guariti dai santoni della zona, facendo passare per tre volte un filo attraverso la cruna di un ago.

Sono molti i montanari che sostengono di aver trovato, al mattino, cavalli con criniere intrecciate e sudate, utilizzati dalle streghe per le loro notturne scorribande.

È risaputo che di queste anime perverse, hanno parlato grandi uomini come Dante Alighieri o Pico della Mirandola.


Tutto poteva essere scongiurato, però, con la preghiera.
La fede è dono di Dio assolutamente importante per gli uomini di montagna.
Nel giro di poche manciate di chilometri tra il Gran Sasso, la Majella e il Velino Sirente, esistono santuari costruiti sopra antri, grotte, rocce o picchi, là dove gli uomini in qualche misura sentono più forte la vicinanza di Dio, luoghi che sfiorano il divino.
Ci sono posti, dove si sperimenta il benessere anche fisico dello stare in silenzio, avvolti nei propri pensieri, ricordi o progetti che ancora ci attendono.

È questo il motivo per cui tanti santi li hanno cercati.
Così credo sia stato per San Benedetto a Cassino, San Francesco a La Verna e San Pietro Celestino a Santo Spirito nel vallone dell’Orfento, a Caramanico nel pescarese.
Questi luoghi conservano una spiritualità palpabile, di enorme richiamo per l’uomo moderno.
Non smetto mai di chiedermi perché l’occidente secolare dimentica tutto il suo sacro, quasi nascondendolo, mentre in Asia non c’è nulla di nascosto e tutto è sacro.
La sacralità della vita è tale che in India, ad esempio, i milioni di senza tetto pregano per strada, inginocchiati nella polvere tra il grigiore polveroso e scrostato.

Ora il dilemma è: scendere attraverso tracce di sentiero fuori pista e spezza gambe verso il paese di Senarica o tornare verso Macchia Vomano, aggirando i ruderi altomedioevali di Tibbia sui piani di Crognaleto, attraverso il vallone del Rosario e su di una comoda mulattiera.
Ci sarebbe anche un percorso tra sterpi che arriva fino allo storico mulino ad acqua De Giorgis di Poggio Umbricchio.

Un luogo delizioso con una storia singolare raccontata nei suoi scritti da Ercole, rampollo della famiglia che dal 1920 ne acquisì la proprietà.
L’antico opificio rurale ancora oggi presenta le pale in legno del tempo, le volte dei canali di deflusso delle acque e la buca di raccolta delle acque.
Questo manufatto fu costruito sul finire del secolo decimo nono da un carabiniere, un certo Giuseppe Andreoli della provincia di Mantova.
Il tizio lasciò la Benemerita, sposò una donna del Poggio e divenne anche sindaco di Crognaleto.
A questo Primo Cittadino si deve la costruzione del ponte in ferro sul fiume e il ripristino di antiche mulattiere.

Il mulino è stato per anni, il punto di riferimento delle popolazioni che vi si recavano per la macinazione dei raccolti di grano, orzo, mais e farro, capo saldi dell’antica alimentazione contadina.
Quale itinerario scegliere? È il bello e il brutto del non avere mete.
Massimo guarda attentamente la cartina, alza gli occhi al cielo, poi decide che forse è meglio tornare in quest’ultima direzione.

Peccato non passare a Senarica!
Quanti bei ricordi ho di questo minuscolo borgo antico pieno di storia.
Ripenso a una mitica sagra della castagna di qualche anno fa.

(Continua 2)
Dal secondo libro di Sergio Scacchia "Il mio Ararat"

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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mercoledì 19 novembre 2014

Le scrippelle 'mbusse, tipica pietanza teramana


Le scrippelle mbusse, tipica pietanza del teramano, sono delle sottili frittatine preparate con farina, uova e acqua.
Dopo averle arrotolate ed eventualmente tagliate a tronchetti per meglio prenderle col cucchiaio esse vengono ‘mbusse (bagnate) in brodo preferibilmente di gallina.

Però come tutti i teramani sanno esse possono essere utilizzate anche nella preparazione di un'altra specialità locale: il timballo alla teramana.
In questo caso le scrippelle vengono usate in sostituzione della sfoglia di pasta, disponendole a strati, una sull’altra, e alternate con un ricco condimento composto da carciofi fritti (oppure spinaci o piselli) e scamorza, polpettine, parmigiano e sugo realizzato con un trito di carne di manzo, agnello e maiale,
Altro utilizzo è quello di adoperare le scrippelle per realizzare i cannelloni, altra prelibatezza teramana, e i fagottini.

Dal punto di vista storico con ogni probabilità le scrippelle sono una derivazione rielaborata delle crêpes francesi.
La loro versione ‘mbusse, ossia bagnate in brodo sarebbe stata invece inventata da un cuoco teramano, Messer Enrico dei Castorani, che aiutava un cuoco francese addetto alla mensa degli ufficiali di stanza a Teramo.
Al posto del pane il cuoco francese usava passare ai commensali le crêpes, perchè le riteneva più gradite e appetibili del rozzo pane di granoturco e del pane nero prodotti in quel periodo di carestia.
Per un caso fortuito un vassoio di crêpes che Messer Enrico dei Castorani stava preparando, cadde in un recipiente colmo di brodo.
Non sapendo come rimediare il cuoco teramano pensò bene di servire, al posto della minestra, quel delizioso miscuglio di crêpes e brodo di gallina.

Verità storica o leggenda?
Sembra che nacquero così le “scrippelle” teramane in brodo.

Per la preparazione delle scrippelle (o screppelle), occorre amalgamare uova e farina, diluendole con mezzo bicchiere d’acqua per ogni uovo. Unta la padella con lardo (o con olio) e lasciata scolare per un po’, con un mestolo si versa l’impasto un poco alla volta, e lasciando cuocere a fuoco basso, così da ottenere delle frittatine molto sottili.
Qui occorre l'abilità e la destrezza del cuoco che deve spargere la pastella in maniera uniforme e far formare un sottilissimo strato, simile ad un velo.
La cottura è molto veloce e ci vuole appunto una certa abilità nel rigirare a metà cottura la scrippella per farle raggiungere la cottura da ambo i lati.

domenica 16 novembre 2014

A Piano Vomano, dove regna la pace!


La tradizione musulmana esige che, almeno una volta nella vita, ogni fedele compia quel cammino che Maometto fece dalla Mecca a Medina, alla ricerca delle radici e del proprio Dio.

Anche il cristianesimo conosce più di una rotta sacra, dalla via Francigena, che dall’Europa porta alla tomba di San Pietro a Roma, alle vie orientali che portano al Santo Sepolcro di Gerusalemme, fino al Cammino di Santiago a Compostela nel “campo delle stelle”.

Forse mi sto chiedendo, dove porta questo mio peregrinare e perché.
Massimo è un tiranno.
Ha già deciso che non ci saranno soste prima del pasto frugale del mezzogiorno.
Mi dice, sorridendo, che questa prima tappa è come il prologo del Giro d’Italia: escursione breve giusto per sgranchire le gambe e prepararle al lungo trekking.
Ho lasciato moglie e figlia, ho fissato un appuntamento tra non meno di quindici giorni.

Il tempo scorre, invecchio a vista d’occhio e ogni anno ho paura di non poter reggere il ritmo di più giorni in marcia.

Nell’antica Grecia “chronos” era il tempo cronologico, appunto, quello che oggi è regolato dagli orologi.

Il “kairos” era, invece, il tempo nel suo contenuto di azioni umane, di vicende, di eventi che mutano il corso della storia di tutti i giorni.

San Paolo nella prima lettera ai Corinzi, lo sente breve nella sua visione caduca della vita, di certo lo è, se è vero che mi ritrovo a oltre cinquant’anni a chiedermi dove sono stato in tutto quest’arco di tempo.
Mi sento come quando si ripiegano le vele di una nave che ha finito la sua corsa e magari è pronta per essere sostituita da una imbarcazione più moderna.
Non è pessimismo quello che sto scrivendo, è avvertenza per chi si fa sfuggire il suo tempo senza reagire alle emozioni che bussano alla porta dell’animo.
Ecco perché vorrei coinvolgervi in questo viaggio sensazionale attraverso la nostra meravigliosa terra.

Ora che la gioventù è definitivamente andata, la montagna a volte pare più lontana, quasi irraggiungibile.

A casa mi capita spesso di guardare i volti delle persone care e anche il mio e ritrovarmi ad avere nostalgia del vento che penetra nel tronco cavo di un albero scricchiolante in un lamento vagamente musicale.

Vorrei sempre che le mie parole creassero immagini, vorrei tornare a baciare, mangiare, leccare la prima neve che scende in quota, vorrei tornare a trangugiare avidamente pasta in frittata dopo aver conquistato una vetta, tornare a sentire l’odore dei corpi tesi allo spasimo per una salita durata ore.

Immaginate un luogo completamente immerso nella natura, lungo la cresta di uno sperone strapiombante sulle gole di un fiume.

Un piccolo agglomerato di case dove la minima presenza umana è data dal basso volume di una radio, dagli odori di un sugo con castrato in preparazione sul fuoco e dal ragliare di un asino dentro una stalla che ha resistito al tempo e agli uomini.
A Piano Vomano, la vita si vive in lentezza.
Il silenzio è quasi sacrale, l’abitato è rustico e compatto, l’anima del borgo è rimasta intatta nei secoli.
Ogni roccia, ogni prato, ogni edificio, parla alla propria gente di un duro passato.
Due donne in abito nero stazionano, immobili, su di una panchina.
Qui si svolge una bella festa estiva dedicata all’albero, elemento insostituibile nella natura di cui spesso ci dimentichiamo.

La loro forza è tale da radicarsi profondamente nella terra, resistendo ai venti e al tempo.
Noi diamo sempre per scontata la loro presenza.
In questi luoghi si trovava una delle più grandi querce d’Italia: la “mazzucche”, dalla circonferenza di ben otto metri e una vita secolare a sfidare le intemperie e la forza distruttrice dell’uomo.

Questi patriarchi non sono solo alberi, ma l’identità di un popolo, un’epopea verde.
Un fulmine più forte degli altri stavolta l'ha stroncata
Stiamo percorrendo un itinerario, un tempo molto frequentato.
Un autostrada della storia!
Una montagna russa del mito.
Lo spazio temporale che abbraccia questo tragitto è di migliaia di anni.
Pochi chilometri per attraversare un’era gigantesca e scoprire il fascino del tempo che non c’è più.
Qui in epoca preromana era come fare la classica “vasca” nel corso di Teramo.
Allora, doveva esserci una sorta di tetrapoli edificata in epoche remotissime, con tanti abitanti, dotata di più porte d’ingresso, brulicante di una massa eterogenea di commercianti, intellettuali, ma anche di una fauna umana di imbroglioni, prostitute, affaristi, miserabili e viziosi.

La grande metropoli sarebbe stata distrutta, secondo una leggenda che fa sorridere, da enormi formiche voraci.

Le storie incredibili che sono state tramandate nei vari insediamenti di questo acrocoro verde di pascoli e ricco di acque che formano il distretto di Crognaleto, sono tutte gustose.

A San Giorgio a oltre mille metri di altitudine, c’è la misteriosa “ara delle schiazze” su cui si credeva danzassero, leggiadre, le fate.
Non lontano da questo luogo da favola, su di un crinale, dal tempio dedicato al santo che sconfisse il dragone del Male, fino a pochi anni fa, rimbombavano i rintocchi della campana fusa sul sagrato, a ricordare il miracolo dei muli che s’inchinarono al passaggio del condottiero armato da Dio.
C’è, non lontano, una piccola chiesina con la volta a crociera.
Nel suo interno sembra scomparire la nervosa inquietudine della quotidianità.

Si percepisce la presenza di Dio che penetra nel corpo e nell’anima con una fisicità che investe tutti i sensi.
Pare che fino a non molti anni fa, tutto intorno si sentissero dei rumori misteriosi.
Gli scettici dei paesi vicini sostenevano fosse il vento.

Qualcuno giurava di aver sentito anche urla strazianti.

A gridare selvaggiamente, sarebbe, per la tradizione popolare, il diavolo murato vivo nei secoli scorsi dai contadini.
E ancora, a pochi passi da Figliola e di fronte al vecchio abitato di Ajello, troneggia ancora la temibile “Rocca Roseto”, tra antichi passaggi segreti, botole con lance acuminate e cunicoli che discendono a valle.

Fu proprio intorno al perimetro delle mura che un mio conosciuto amico, Gino di Teramo, rinvenne un’antica daga acuminata.
E fu ancora qui che altri trovarono degli stiletti utilizzati dai briganti che transitavano nell’immenso pianoro dove oggi si svolge la “mostra della pastorizia”.

Fra i reperti tornati alla luce nel corso degli anni, pare ci siano anche mattonelle votive con disegni di leoni ruggenti, fiere con artigli e fauci spalancate che simboleggiavano quanto terribile sia l’aldilà e il passaggio dalla vita alla morte.

Il luogo evoca anche terribili storie di streghe.

Da queste parti doveva esserci, per la ricca tradizione popolare, una sorta di succursale della campana Benevento, unanimemente riconosciuta come la capitale della stregoneria.

Il grande scrittore Guido Piovene, autore quasi sessanta anni fa, del famoso libro “Viaggio in Italia”, presentava queste terribili figure femminili, dotate “di piedi palmati come anitra, cavalcatura, cavaliere servente ed amante concesso ad ognuna da Satana, che giungevano in volo intorno ad un antico noce.

Col sangue tratto dalla mammella sinistra, ognuna facea voto di odio, adulterio, maleficio e omicidio, almeno una volta al mese”.
Un racconto di aurea gotica che prevedeva la presenza del diavolo in forma di caprone a promettere beni mondani a chi lo assecondasse nei suoi progetti malefici.

Siamo partiti dalla piccola piazza all'ingresso del borgo a poco più di ottocento metri di altitudine e, fiancheggiando una piccola edicola votiva, ci siamo portati su di un ampio tracciato, dove non s’incontra anima viva.

C’è, davanti a noi una piccola cappella, icona del buon viaggio.
È quanto di più poetico possa esistere.

La tradizione popolare ricorda che l’immagine santa serviva a proteggere i viandanti dalle forze del male che vagavano senza posa.
Sul futuro di tutte queste impronte mistiche non gravano solo le avversità meteorologiche ma, soprattutto, incuria e vandalismo.
 Ricordo che su un pilone sacro, nelle Dolomiti del Brenta sul lago di Molveno, lì dove c’era una impolverata Addolorata, chiamata la Madonna del Dito perché dal mantello azzurro drappeggiato sul petto spunta la punta del pollice, lessi una scritta inquietante: ”oh passeggero, ferma il passo, guarda il passo, oh che passo, l’ultimo passo”.

C’è ovunque, anche in posti sperduti, un patrimonio di religiosità popolare impossibile da catalogare con un numero incalcolabile di edicole, nicchie e crocicchi. David Maria Turoldo, poeta e frate dei Servi di Maria, scomparso nel ’92 descriveva così questa devozione di strada: “povere immagini opere di anonimi artisti che per me sono amabili al pari di Giotto e Cimabue…”.
(continua)

Tratto dal secondo libro di Sergio Scacchia: "Il mio Ararat". 
Foto di Alessandro de Ruvo.


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Per raggiungere Piano Vomano si percorre la S.S. 80 Teramo L'Aquila fino al bivio per Senarica – Piano Vomano; qui si gira a destra e dapprima si scende. 
Poi ci si inerpica e si attraversa il centro abitato di Senarica prima di arrivare nel suggestivo borgo.

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sabato 15 novembre 2014

Il capolavoro di Nicodemo a Cugnoli!

La primavera sulle colline della campagna pescarese è qualcosa di incantevole.

Lontano da grigliate, assembramenti e motori, tutto si immerge in un silenzio rotto qui e là dallo scampanio di sparuti greggi che puntellano le piccole alture verdi e il fondovalle di coltivi, uliveti e piccoli casali isolati.

Sono molti i borghi, i minuscoli abitati, ognuno dei quali ha qualcosa da raccontare.
Moscufo, Loreto Aprutino, Brittoli, Nocciano, Pietranico e Alanno dove ci sono i migliori esempi di barocco abruzzese, sono tutti centri seppur piccoli, in grado di sorprendere il visitatore con i loro tesori.

Su di un colle ameno, affacciato sulla piccola e assolata valle detta del Cigno, c’è anche lo sconosciuto paese fortificato di Cugnoli.

Certo, dell’antica cinta di mura e degli ulteriori muraglioni difensivi su cui poggiavano le antiche case è rimasto ben poco, ma l’atmosfera del tempo che fu è ancora palpabile.

Saranno forse i palazzotti gentilizi del Quattrocento e del Cinquecento, scampati miracolosamente alla distruzione a dare ancora stimoli storici al visitatore.

Al mio arrivo trovo seduto ai tavolini fuori il bar un signore.
Ha l’aria svagata tipo Mr. Bean.
All’interno del locale un anziano dormicchia e un altro è intento a leggere il quotidiano.
L’uomo rimane interdetto quando chiedo dove è possibile ammirare il meraviglioso ambone.
Quest’opera è l’ultima indimenticabile creazione dello scultore Nicodemo che nei primi anni del 1100 imperversò con la sua arte in tutto Abruzzo, creando i capolavori forse più conosciuti custoditi a Santa Maria al Lago di Moscufo e Santa Maria in Valle Porclaneta presso Rosciolo.

Il manufatto è un pregevole pezzo della scultura abruzzese nel periodo romanico.

Fu quello un periodo che generò opere di grande pregio e diverse botteghe d’arte regalarono tesori all’Abruzzo.

Fra questi da non dimenticare il fantastico ciborio di
San Clemente al Vomano.

Mi accorgo che il mio interlocutore non ha assolutamente idea di cosa sia un ambone.
Per fortuna sa darmi l’indicazione per la chiesa parrocchiale anche se aggiunge “ sa, io la frequento poco …”.
La viuzza antica che mi porta a Santo Stefano Martire è caratteristica, tra piccoli balconi con panni stesi e fiori sui davanzali.
Raggiungo la chiesa che è del XIII secolo, posta in una minuscola piazza e subito ho una delusione.
La facciata anonima è intonacata alla ben meglio con una finestra e un portale non certo indimenticabili.
Forse è interessante lo stemma cinquecentesco e la piccola lastra in pietra decorata da un bassorilievo raffigurante il toro alato, simbolo dell’evangelista Luca che è sicuramente posteriore di poco all'edificazione del tempio.
Anche l’interno, in stile barocco impallidisce davanti ai vicini oratori di Pietranico e Alanno.

Le decorazioni a stucco sono pesanti e modeste.
Ma l’ambone, posto in prossimità del presbiterio, sulla sinistra, riempie di luce tutto l’ambiente.
Davvero l’arte è l’ombra di Dio sulla terra, penso.
Per contemplare la bellezza ci vuole coraggio e amore.
È come vertigine, acqua fredda di montagna che purifica l’incontro con l’Onnipotente.

L’opera risulta completamente estranea a tutto l’ambiente.
Direi forse che la chiesa risulta estranea all’opera che starebbe bene in solitudine, messa per conto proprio a disposizione di chi voglia ammirarla.

Il parroco che incontro dopo qualche minuto conferma la mia impressione.
L’opera era stata concepita per un’altra chiesa oggi scomparsa, poi fu portata in questo tempio, nato a posteriori.
Molti i temi trattati nelle sculture lavorate per arricchire l’ambone: le imprese del re Davide, la bellezza di Dio attraverso i fiori, i misteriosi intrecci arborei o le strane forme geometriche che imprigionano l’uomo nel peccato o le fantastiche creature mezzo uomo e mezzo animale.

Tutti gli altri piccoli capolavori custoditi nella chiesa passano in secondo piano davanti a questo ambone superbo ma sono comunque da ammirare come la scultura in legno dell’Annunciazione, la piccola statua in terracotta del Madonna con Bimbo, XV secolo o le pitture non eccelse ma comunque di buona fattura, realizzate da artisti di una bottega che operava nella zona all’inizio del Settecento.

Sono contento, è valsa la pena salire fin quassù per ammirare bei panorami sulla vicina Majella e questo capolavoro medievale che riempie occhi e anima.
Decido di terminare la giornata dedicandomi alla natura,
salendo fino al valico di Forca di Penne.

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Come arrivare a Cugnoli, distante circa 30 chilometri da Pescara:
A 24 fino a Pescara, poi A25, Pescara Roma, uscita Alanno/Scafa; proseguire per 18 km in direzione Alanno/Pietranico/Cugnoli

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domenica 9 novembre 2014

Santa Maria Colleromano di Penne.

Una gita alla scoperta di luoghi non lontanissimi ma sicuramente interessanti?
E’ il caso del complesso monastico di Colleromano a Penne dedicato a Santa Maria, in provincia di Pescara, facilmente raggiungibile tramite l’autostrada A 14, uscita Pescara Nord, Città Sant’Angelo.

Il monastero, poco distante dallo splendido centro Vestino, ha sempre rappresentato un luogo di ordini religiosi, ospitando negli ultimi secoli, i Frati Minori Francescani.
Dal 2011 la Provincia Monastica, in accordo con gli ultimi Frati rimasti, ha deciso di affidare il prezioso Convento al Comune di Penne, con l’unica condizione di trattenere e salvaguardare il patrimonio archivistico strettamente correlato alla vita storica della Provincia.

Oggi sono molte le voci e gli articoli sui giornali che raccontano le intenzioni nefaste da parte del Comune di Penne di Vendere il Convento di Santa Maria di Colleromano per realizzare un Resort. Sarebbe una cosa a dir poco scandalosa!

D'altronde questo monastero nel corso dei secoli è stato più volte trasformato e rifatto in maniera così profonda da far considerare l’attuale struttura non rispondente, se non in minima parte, all’originaria.

È un luogo di pace, scelto non a caso dai frati che avevano indubbiamente necessità di posti che favorissero la meditazione e la contemplazione.
Anche oggi una pace interiore invade chi ha la fortuna di passare qui.

All’interno del complesso è esistito il Museo delle Tradizioni francescane e delle genti d’Abruzzo.
I frati hanno raccolto nei decenni passati, un’infinità di oggetti testimonianti la vita della loro fraternità e della gente abruzzese che lavorava nei campi.
Accanto a paramenti sacri, a testimonianze e segni delle missioni francescane nel mondo, è facile trovare oggetti della cucina di una famiglia contadina, attrezzi per lavorare la terra, maioliche e lampade.

Alle testimonianze di vita in una cella dei frati, si mischiano, in un’interessante commistione, altri segni di esistenza laica, oltre a quadri antichi, vecchie cartoline.

Una visita non può prescindere dalla maestosa biblioteca, oggi purtroppo rimaneggiata, dove i frati hanno raccolto con amore libri di ogni epoca che trattano tutti i temi dello scibile umano in una grande casa del sapere.

Sono da visitare anche gli ampi saloni dove operava un importante Seminario dei Frati Minori.
Qui si sono preparati adeguatamente religiosi che hanno svolto grande attività apostolica in patria e nelle missioni del terzo mondo.

A Colleromano lavora l’Associazione che s’ispira a San Cesidio, il martire dell’Eucaristia, originario di Fossa, splendido paesino dell’Aquilano, non lontano dal complesso di San Giovanni da Capestrano.

San Cesidio è un segno tangibile della missionarietà francescana nel mondo, da Panama, alla Terra Santa, fino alla lontana Cina.
Fu proprio in terra cinese che il giovane ventisettenne perse la vita, sorpreso dalla rivoluzione anti cristiana.
Fu colpito da bastoni e pietre e poi finito, mentre con il suo corpo difendeva l’ostia sacra, bruciato ancora vivo con una coperta inzuppata di petrolio.

L’Associazione a lui intitolata vive di solidarietà, arte e cultura.
Aiuta chi versa in condizioni di disagio, diffondendo un messaggio di vita e di speranza e allo stesso tempo s’impegna nella tutela e valorizzazione dell’immenso patrimonio storico culturale di una zona, qual è l’area vestina del Parco Gran Sasso Laga.
Esiste anche un ottimo servizio di foresteria con diverse camere accoglienti, dove poter essere ospitati.

Potreste così scoprire in tutta tranquillità gli interni di straordinario equilibrio di una chiesa tra le più armoniose della regione, il viale alberato, dove poter ritemprare spirito e corpo e dove ammirare una secolare quercia che fa parte della speciale lista nazionale degli “alberi da salvare”, visitare il nuovo e i ruderi del vecchio chiostro, prendendovi tutto il tempo occorrente.

Tutto in questo luogo parla di storia.
Colleromano era dimora nei secoli di vari Ordini Mendicanti dei Domenicani e Francescani, che hanno influito non poco sulle fortune della città di Penne, realtà sempre dinamica e ricca, divenendo punto di riferimento della vita religiosa e culturale, nonché di quella civile e politica sin dai tempi in cui qui c’era una badia cistercense.

Su questo colle fu sempre fiorente la presenza di eminenti e dotti religiosi fra i quali, degni di particolare menzione, sono i componenti la famiglia Angelini che rivestirono alte cariche nell’Ordine Francescano.
Il maggiore di essi, Giacomo Antonio, è ricordato nella lapide, posta sul sepolcro, oggi nel chiostro.

È interessante la grande statua in pietra della Madonna con, sulle ginocchia, la chiesa opera d’ignoto scultore, che guarda con aria benevola da una nicchia alta il visitatore che vi si accosta.
L’interno della chiesa è straordinariamente bello.
Chi si sofferma dal fondo della navata centrale scopre la grazia di colonna comunque poderosa, un tabernacolo maestoso e un colpo d’insieme mirabilmente armonioso.
Col sole splendente all’esterno, la luce fantastica rimaneggiata dalle ombre degli eleganti archi e il concorso dei riflessi di oro zecchino dell’altare nel presbiterio, forma un caleidoscopio trionfale di colori.

Da soffermarsi senza fretta sulle stazioni della Via Crucis del ‘700 e la pregevole tela dedicata alla Sacra Famiglia di chiara scuola umbro marchigiana.

È bella la Vergine che si china, pudicamente, a contemplare in estasi il Figlio che in mano reca un segno di Potere universale.


Gli angeli adoranti e il San Giuseppe in meditazione completano un’opera bellissima.
Semplice ma elegante il Coro i cui stalli furono completati nei primi anni del ‘500 e che oggi sono rimasti originali.
Attraversando la chiesa, arrivate fino all’altare maggiore ornato da tre statue di legno che raffigurano, al centro, la Vergine Assunta e ai lati San Francesco e San Bernardino.

Uscendo, le possenti strutture architettoniche fanno pensare all’imponenza di un castello e forse dovette essere questo prima che i Benedettini di Carpineto della Nora e poi i Francescani lo eleggessero luogo di rifugio dell’anima e di asilo dello spirito.

E’ da prevedere una piccola sosta davanti al monumento di San Francesco d’Assisi, dedicato al famoso “Cantico delle Creature”.

Colpisce lo sguardo anche il portale, creazione artistica notevole, che gli esperti definiscono mirabile per ricchezza e varietà di elementi, un vero e proprio capolavoro, vagamente somigliante a manufatti come quelli della cattedrale di Atri, di Santa Maria di Propezzano a Morro d’Oro o l’Annunziata di Giulianova.

Da Penne il ritorno a Teramo si potrebbe fare attraverso Rigopiano e Castelli, attraversando Farindola dove è possibile mangiare superbamente a base di carne di montagna o pecorino, oppure, da Campo Imperatore e l’Aquila verso Vado da Sole, grande punto per escursioni montane sopra le vette del Camicia e del Prena, nel Gran Sasso, consigliabili in piena estate.

 Per arrivare:
Con l'autostrada A14 si esce al casello di Pescara-nord; si continua con la statale numero 151 fino a Penne e al Convento. 
In treno si scende alla stazione di Pescara e si prosegue con l'autobus locale.

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sabato 8 novembre 2014

Pettorano sul Gizio, dove natura, storia e buona tavola danno spettacolo!

C’è un film fantastico con Jeremy Irons e Bob De Niro, il suo titolo è “Mission”.
Lo ricordate?

Irons con un piffero incantava gli indigeni e diceva queste parole: “Se con un flauto ho convertito questi uomini cosa potrei fare con un’orchestra?.



Un istante dopo, lo spettatore era travolto dalle note immortali della stupenda colonna sonora.
Semplicemente geniale.
Davanti a un panorama coinvolgente spesso riscopriamo la creazione e il suo Creatore.

E Dio non ha bisogno di dover suonare nessuno strumento musicale!
Sono questi i primi pensieri che mi colpiscono, avvicinandomi a Pettorano, sprofondato
nell’incantevole scenario paesaggistico di un colle affacciato sul fiume Gizio con sopra il monte Genzana.


È sicuramente un luogo ideale per visitare la parte più verde d’Abruzzo, punto d’incontro tra il Parco Nazionale e quello della Majella.

Siamo ad alcuni tornanti dalla bella Sulmona, patria di Ovidio cantore latino dell’amore, nel punto meridionale di accesso all’interessante valle Peligna.

Il paese è parte integrante di un territorio straordinario, protetto dal 1996, la Riserva Naturale Monte Genzana- Alto Gizio con il suo organizzato Centro di Educazione Ambientale.

Le foreste intorno custodiscono la vita di animali come l’orso, il lupo, la faina, la donnola, il capriolo, il cervo, la volpe.

Nel cielo volteggiano rapaci di ogni tipo, cicogne e germani reali.

Un paradiso naturale nel quale, tra amene passeggiate lungo il fiume e nei boschi, si possono scoprire anche le orme dell’uomo attraverso resti di antichi mulini, opifici, masserie agricole, ramiere.

Si può accedere all’interno del borgo attraverso cinque porte: la San Nicola con la bella chiesa madre, la Cencia, antica porta delle Manere, la San Marco che introduce allo scenografico castello Cantelmo, la Santa Margherita in onore della patrona del paese e, infine, l’ingresso dei Mulini dal quale porta ci s’introduce nel bel sentiero lungo il fiume alla scoperta degli antichi manufatti.

Entrando tra i vicoli del paese, la sensazione gratificante è che ci si trova in uno dei borghi autentici d’Italia, uno di quei pochi paesi dove l’ospitalità è ancora un valore da condividere, dove i ritmi di vita sono rimasti quelli tranquilli di un tempo.

Ho sempre trovato interessante il cuore della semplicità, mi sono scoperto spesso sorpreso dai colori forti della montagna che circonda un centro e dagli scorci che pretendono il passo lento di un viaggio a ritroso nel tempo.

Girando per le vie antiche ci si rende subito conto che questo luogo, questa gente, rappresenta un incontro perfetto e magico tra storia, leggenda, natura e vissuto.

In pochi passi è possibile scoprire rinascimentali residenze nobiliari, chiese, fontane artistiche, piazze di notevole bellezza architettonica.
L’anima di Pettorano, però, è medievale.

È spettacolare, nella scenografia, la torre di avvistamento che si erge nella parte più alta della zona
vecchia denominata “guardiola” cuore dell’antico borgo fortificato a guardia della valle.

Si tratta dell’imponente torre del castello Cantelmo, edificato nell’undicesimo secolo come semplice torretta e ampliato dagli Angioini i quali lo munirono di mura e torri circolari.

Oggi quel che resta del fortino ospita un interessante museo dedicato al territorio e alla Riserva Regionale protetta.

Merita tutta l’attenzione del turista, la bella chiesa madre dedicata a San Nicola di Bari, ubicata nell’omonima porta d’ingresso del paese.

Qui sostavano, in intensa preghiera, i pastori che marciavano sul grande tratturo Regio Celano- Foggia nella parte meridionale della conca peligna, dopo aver attraversato Goriano Sicoli, Raiano,
gravitando nell’antico fortilizio pettoranense.

Le peculiarità di questo fantastico scorcio d’Abruzzo non si esauriscono qui.
Devo rendervi conto della gastronomia locale.

A Pettorano si mangiano da Dio sia pietanze a base di carne che formaggi.
Il piatto tipico da non perdere però è la famosa “polenta rognosa”, la cui sagra da innumerevoli anni illumina l’inverno con presenze turistiche notevoli.

Non potrebbe essere altrimenti data l’antica presenza dei mulini per la lavorazione dei cereali.
La preparazione di questo piatto secolare è uno spettacolo.
La farina di granoturco è rimestata a lungo con sapienza tramandata dai genitori ai figli.

La polenta divenuta compatta, è poi tagliata a fette e accompagnata da salsiccia, aglio, peperoncino e pecorino.
Una delizia!

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Il paese si raggiunge agevolmente utilizzando il casello autostradale Pratola Peligna- Sulmona dell’A25 Pescara Roma, strada per Roccaraso.
Provenendo dall' autostrada A 25 Roma - Pescara:
Uscita Sulmona-Pratola Peligna. Strada Statale 17 direzione Roccaraso, 20Km.
Provenendo da Napoli:
Uscita autostradale Caianello direzione Venafro - Roccaraso. Da Roccaraso 25 Km verso Sulmona.
Pettorano è raggiunto dagli autobus dell'ARPA in partenza da Sulmona e da quelli Arpa e SATAM che collegano Pescara con Napoli, questi ultimi non passano però all'interno del paese.
Provenendo da Roma, è possibile prendere l'autobus dell Autolinee Schiappa dalla stazione Tiburtina fino a Sulmona e qui l'autobus sub-urbano per Pettorano.
Gli autobus ARPA e SATAM da Napoli partono dalla Stazione Garibaldi, da Pescara dal piazzale della stazione Centrale.


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