“Andarono in giro, coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati- di loro il mondo non era degno!- così vaganti pei monti tra le caverne e le spelonche della terra”. (Ebrei 11,36-38)
Viaggiare a piedi è connettersi con ognuno dei tuoi sensi in un percorso interiore in cui ogni passo assume un valore infinito.
Massimo ha già estratto il suo bel panino con frittata di asparagi, quando in lontananza vediamo un pastore avvicinarsi sempre più con il suo piccolo gregge.
La polvere sollevata dagli animali sfuma il paesaggio come in un sogno.
Riempie il cuore vedere una scena antica in un mondo che ha dimenticato il suo passato.
Tra un boccone e l’altro, l’amico mi fa notare che quest’antica strada romana, tagliata per molti chilometri tra boschi e rupi, portava le torme di pecore e capri verso Senarica e poi giù per la valle del fiume Vomano, fino al mare.
Una sorta di raccordo tra la “Salaria dell’Adriatico” e quella del Gran Sasso che toccava poi la Laga amatriciana.
Basti pensare alle pietre miliari presenti qui e là da Poggio Umbricchio, grumo di case abbarbicate sulla roccia come un astore su di un pendio pronto al volo, giù fino al tempio di Ercole nella zona archeologica della vallata.
Non so se conoscete Fonte Spugna, quell’antico fontanile che trovate in una delle curve a gomito sulla strada Maestra del Parco, pochi tornanti dal bacino Enel del lago di Piaganini.
Ebbene se ci si affaccia di sotto del guardrail, lì dove scorre il fiume, s’intuiscono tracce di sentiero.
L’antica Salaria, secondo il mio amico montoriese, Claudio Foglia, appassionato cultore di quest’antica arteria romana, passa lì dopo essere scesa proprio dal Poggio, località campo sportivo, dove fu trovata la colonnina miliare, per virare attraverso Leognano e fino a Zampitto- Salara, per l’appunto.
Splendido!
Ricordo che quel grande uomo di cultura e amico, Gianmario Sgattoni, prima di lasciarci avrebbe voluto scrivere a quattro mani con me di questa sorta di città santuario sepolta dinanzi al Gran Sasso.
Per lui proprio qui esisteva l’antica “Beretra” di cui Tolomeo scrisse: “città orientale di là dell’Interamnia”.
Forse, come diceva l’abate scrittore del primo novecento, Jean Jacques Christillin, “la leggenda non è poi così lontana dalla verità, ma è semplicemente, la storia non ancora messa a punto”.
Di questi luoghi magici, solenni e misteriosi, il Gran Sasso è ancora pieno.
Vivono di vita propria in un continuo alternarsi di luci, ombre e figure che si confondono tra falsi storici e realtà.
Elementi mescolati che danno poi vita a una sorta di sinfonia poetica, unica, onirica, in un rapporto insondabile tra uomo e natura.
Il pastore rabbonisce il suo scalmanato cane bianco che latra selvaggiamente, mostrando denti affilati e occhi rossi ardenti come carboni.
Porta, sotto al mento, un lungo collare dai chiodi aguzzi per difendersi dai pericoli.
Il latrare del cane fedele si confonde con l’acuto suono dei campanacci.
La bestia infernale pare prendere maledettamente sul serio il suo compito di custode delle pecore.
Queste palle bianche animate, creature sorprendenti dal pelo lungo, appaiono un po’ orsi, un po’ lupi, sono impareggiabili in ferocia e forza.
Quando in montagna, li scorgi comparire sul tuo sentiero con il minaccioso abbaiare, è come se fossi in balia di un leone.
Mentre ringhiano, sei lì a pregare che il padrone delle greggi sia nei paraggi, altrimenti si fa notte!
Anche quando non avvertono minacce verso le greggi, non sembrano mai socievoli.
L’uomo, al contrario, è loquace ed è anche italiano.
Ha le tempia leggermente brizzolate, il colorito sano di chi passa evidentemente molte ore in ambiente, sorriso contagioso e insospettata capacità naturale di comunicare.
Vive non lontano da Tottea, ma nella bella stagione per molti giorni sperimenta una vita quasi nomade. Incredibilmente la pecora è ancora il centro della sua economia, dei suoi pensieri e del lavoro.
Un mondo anacronistico il suo.
Racconta degli aneddoti agro-pastorali, conditi da sussulti di umorismo.
Ricorda quando i pastori di sera transitavano in un paese.
C’era il rito dei pentolini: ogni famiglia, con il suo bel contenitore in mano, faceva il giro dei transumanti per chiedere un po’ di ricotta, il siero da mangiare la sera o da miscelare al mattino con il latte.
Snocciola, addirittura, anche ricette come quella della “pezzata”, piatto transumante che credevo si consumasse solo a Capracotta, nelle montagne del Molise, non lontano dalle vestigia di Pietrabbondante e delle antiche fonderie di Agnone.
Nel borgo molisano ancora lavora l’officina dei fratelli Marinelli, realizzatori delle campane nella basilica di San Pietro a Roma.
La pecora è bollita con erbe aromatiche dei prati alti, profumandola e servendola con zuppa di pane raffermo.
Il pastore schiocca le labbra a far capire la bontà del piatto, apre, poi, la sua povera bisaccia che ha visto giorni migliori ed estrae, con aria soddisfatta, ciuffi di orapi, sorta di spinaci selvatici d’altura e sentenzia che con quelli, la pezzata diventa un lusso!
Chissà perché quest’uomo d’altri tempi che non ha lasciato neanche il suo nome, appare affascinante nel suo puzzo di sudore e formaggio andato a male.
Per Massimo è la sua vita verde ad attrarre.
È una sorta di perenne avventura che alla casa di paese gli fa preferire le greggi, l’ovile, il canto degli uccelli, l’acqua di un ruscello.
È l’incanto di vivere al confine tra le rocce arenarie della Laga e il calcare del Gran Sasso, nella libertà assoluta, libera da schemi predefiniti.
Un qualcosa che ammalia chi, come noi, vive immerso in un mondo che consumandosi fino a farsi male, cerca oggi qualche via di salvataggio attraverso i confini di un’esistenza eco compatibile.
Sono vite semplici, povere, ma autentiche e pienamente vissute.
Questo povero transumante è un monumento alla tradizione.
Tutta la grande vallata ai margini dei monti della Laga è stata per anni conosciuta anche per la produzione di formaggi.
L’uomo è una miniera di ricordi.
Ha un’allegria coinvolgente.
Ride sguaiato, dipingendo, quasi la chiostra dei suoi denti.
Traffica con la sua pipa, la pulisce, la carica, l’accende, spande un terribile odore di tabacco nell’aria.
Un tempo, ci dice, quando si faceva pettegolezzi si diceva: facciamo ricotta!
Ci parla dei padroni, a volte odiosi che affidavano il loro gregge alla povera gente del posto.
I possidenti oltre al salario mensile, di per sé scarso, fornivano lo stretto necessario per sopravvivere.
La dote era: un litro d’olio al mese, un chilo di pane al dì, un chilo di sale per trenta giorni.
Lo strumento principe di questa sorta di baratto, era la “taja”, un regolo in legno su cui si segnavano con tacche, le quantità di pane e altre merci ricevute dal padrone.
In caso di superamento di queste razioni, si scalava il mese successivo.
Nell’ipotesi, molto remota che avanzasse qualcosa c’era il cosiddetto “affranco”, con il calcolo nel salario successivo.
Nel ricordare i pastori, che tornavano in estate con le loro greggi, invadendo le strade come un fiume di lana, il gregge che copriva ogni spazio della strada da dove si scorgevano solo velli, le tante case piene di persone che ora non ci sono più, l’uomo pare quasi sul punto di piangere.
Sembrano tempi incredibilmente lontani da noi quelli in cui si curava febbre con le sanguisughe e i salassi, quando il bucato si faceva con la liscivia, cioè acqua e cenere, quando i fiumi e i laghi erano potabili.
Ricordo che anche la mia povera nonna aveva una convinzione assurda: quando qualcuno stava molto male bisognava uccidere la gallina e preparare il brodo per il debilitato, mentre almeno una di sette vergini, con un bel fazzoletto bianco in testa, doveva recitare con trasporto il rosario.
In realtà il tempo che ci separa da una vita così diversa non è poi tanto.
Mentre l’uomo racconta, penso che lo scrittore latino Catone, oltre 2000 anni fa, ripeteva che per tutti i successivi secoli, la pastorizia sarebbe stata la maggiore ricchezza.
Sappiamo tutti com’è finito il Sacro Romano Impero.
L’Italia del dopoguerra grondava di latte, commerciava in lana, oggi i pastori sono disperati macedoni o piccoli produttori come l’uomo che abbiamo davanti.
Il “Settembre andiamo, è tempo di migrare” di dannunziana memoria suona come un beffa fuori moda.
Pochi sono quelli che ancora cercano di salvare i tratturi, le autostrade dell’antichità lungo le quali si snodavano commerci e transumavano gli armenti.
Ancora di meno coloro i quali cercano di non far crollare piccole chiese disseminate lungo i tracciati. Molti tratti sono ormai ricoperti da erbacce, molti asfaltati o affittati a contadini.
Il mondo è cambiato, qualche volta in peggio.
Chissà perché i pastori sono stati sempre visti con sospetto da tutte le civiltà.
La letteratura sumerica li definiva: “apparenti uomini dalla voce dei cani di prateria”.
Altre cultura li comparavano a briganti.
Gli egiziani ne avevano repulsa.
Per gli ebrei non potevano neanche testimoniare nei processi.
Un mestiere essenziale ma, direi, maledetto.
Eppure furono loro a vedere per primi Gesù nella grotta di Betlemme e dal tronco di Iesse, dal giovane pastorello Davide, che nacque la genealogia del Cristo.
Riprendiamo il cammino in un pomeriggio in cui il sole ha lasciato posto a una spessa nuvolaglia umida, grigiastra.
Il cielo è ora plumbeo, rigato da inusuali strisce rosse.
In un silenzio condiviso c’inoltriamo in un paesaggio di arcadica semplicità. In lontananza sentiamo scampanii di mucche al pascolo.
Nel naso, un acuto profumo di resina proveniente da boschi vicini.
Superati i minimi resti del leggendario abitato di Campanea che resistette alle intemperie del tempo fino al tardo medioevo, incontriamo anche le anonime pietre di quella che un tempo era l’antica pieve di San Martino dove dicono siano vissuti uomini già intorno al I secolo ante Cristo.
Si favoleggia che qui ci fosse già un vero presidio di fede pagana, poi col Cristianesimo la zona divenne una minuscola cittadella dello Spirito, un sito del silenzio e della contemplazione.
Bé, in verità, il silenzio è rimasto.
L’aria sembra ancora intensa di anime, densa e rarefatta allo stesso tempo.
L’aura religiosa un tempo si estendeva fino alla Madonna del monte Calvario di Piano Vomano, creando un culto mariano notevole: quello delle Sette Madonne Sorelle, che coinvolge tutte le statue dedicate alla Vergine Maria che si trovano nei paesi vicini.
È un’antica forma di devozione popolare, in passato molto diffusa nelle aree rurali e montane.
Il culto veniva professato svolgendo pellegrinaggi a piedi nelle chiese disposte entro orizzonti confinanti in modo da vedersi e dov’era presente una statua di Maria Santissima, per sciogliere voti, chiedere grazie, protezione da eventi terribili.
Oltre ad un’area devozionale, il luogo aveva anche funzione strategica per arroccarsi nel caso di un attacco nemico.
Una piccola città in pietra, dalla mirabile strategia urbanistica e una straordinaria posizione geografica, incastonata tra queste montagne.
Pare che uno scrittore del Rinascimento di cui non rammento il nome, parlando di questa cittadella ormai scomparsa, la descriveva così: “lì dove regna il sole che è di tutti e tutto fa crescere e la rovina non sarà mai tale.”
La domanda aperta al cielo è: come può essere diventato tutto così, rovina su rovina?
Una gustosa leggenda tramandata per anni, racconta di spiritelli terribili dal baschetto rosso e facce nere, che occupavano questo luogo: erano i fantastici “mazzamarill”.
Spaventavano le mandrie di vacche e le greggi delle pecore creando disagi a non finire ai pastori.
Occorreva molta fede e ore di preghiera per allontanare questi folletti birichini.
Ancora oggi quando s’incontra una persona di carnagione scura da queste parti si dice “che è nere n’da nu mazzamarill” .
La fama di questi luoghi è anche legata a un non so che di esoterico folcloristico.
Le presenze demoniache potevano essere allontanate solo con la preghiera.
Anche con accorgimenti, per carità.
Tutti, presso gli usci di casa, mettevano, ad esempio, le scope, per far sì che streghe o spiriti maligni, entrando, fossero costretti a contare uno per uno i fili, senza riuscire a venirne a capo entro l’alba.
I bambini, che spesso avevano problemi digestivi a causa della poca igiene, venivano guariti dai santoni della zona, facendo passare per tre volte un filo attraverso la cruna di un ago.
Sono molti i montanari che sostengono di aver trovato, al mattino, cavalli con criniere intrecciate e sudate, utilizzati dalle streghe per le loro notturne scorribande.
È risaputo che di queste anime perverse, hanno parlato grandi uomini come Dante Alighieri o Pico della Mirandola.
Tutto poteva essere scongiurato, però, con la preghiera.
La fede è dono di Dio assolutamente importante per gli uomini di montagna.
Nel giro di poche manciate di chilometri tra il Gran Sasso, la Majella e il Velino Sirente, esistono santuari costruiti sopra antri, grotte, rocce o picchi, là dove gli uomini in qualche misura sentono più forte la vicinanza di Dio, luoghi che sfiorano il divino.
Ci sono posti, dove si sperimenta il benessere anche fisico dello stare in silenzio, avvolti nei propri pensieri, ricordi o progetti che ancora ci attendono.
È questo il motivo per cui tanti santi li hanno cercati.
Così credo sia stato per San Benedetto a Cassino, San Francesco a La Verna e San Pietro Celestino a Santo Spirito nel vallone dell’Orfento, a Caramanico nel pescarese.
Questi luoghi conservano una spiritualità palpabile, di enorme richiamo per l’uomo moderno.
Non smetto mai di chiedermi perché l’occidente secolare dimentica tutto il suo sacro, quasi nascondendolo, mentre in Asia non c’è nulla di nascosto e tutto è sacro.
La sacralità della vita è tale che in India, ad esempio, i milioni di senza tetto pregano per strada, inginocchiati nella polvere tra il grigiore polveroso e scrostato.
Ora il dilemma è: scendere attraverso tracce di sentiero fuori pista e spezza gambe verso il paese di Senarica o tornare verso Macchia Vomano, aggirando i ruderi altomedioevali di Tibbia sui piani di Crognaleto, attraverso il vallone del Rosario e su di una comoda mulattiera.
Ci sarebbe anche un percorso tra sterpi che arriva fino allo storico mulino ad acqua De Giorgis di Poggio Umbricchio.
Un luogo delizioso con una storia singolare raccontata nei suoi scritti da Ercole, rampollo della famiglia che dal 1920 ne acquisì la proprietà.
L’antico opificio rurale ancora oggi presenta le pale in legno del tempo, le volte dei canali di deflusso delle acque e la buca di raccolta delle acque.
Questo manufatto fu costruito sul finire del secolo decimo nono da un carabiniere, un certo Giuseppe Andreoli della provincia di Mantova.
Il tizio lasciò la Benemerita, sposò una donna del Poggio e divenne anche sindaco di Crognaleto.
A questo Primo Cittadino si deve la costruzione del ponte in ferro sul fiume e il ripristino di antiche mulattiere.
Il mulino è stato per anni, il punto di riferimento delle popolazioni che vi si recavano per la macinazione dei raccolti di grano, orzo, mais e farro, capo saldi dell’antica alimentazione contadina.
Quale itinerario scegliere? È il bello e il brutto del non avere mete.
Massimo guarda attentamente la cartina, alza gli occhi al cielo, poi decide che forse è meglio tornare in quest’ultima direzione.
Peccato non passare a Senarica!
Quanti bei ricordi ho di questo minuscolo borgo antico pieno di storia.
Ripenso a una mitica sagra della castagna di qualche anno fa.
(Continua 2)
Dal secondo libro di Sergio Scacchia "Il mio Ararat"
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
Viaggiare a piedi è connettersi con ognuno dei tuoi sensi in un percorso interiore in cui ogni passo assume un valore infinito.
Massimo ha già estratto il suo bel panino con frittata di asparagi, quando in lontananza vediamo un pastore avvicinarsi sempre più con il suo piccolo gregge.
La polvere sollevata dagli animali sfuma il paesaggio come in un sogno.
Riempie il cuore vedere una scena antica in un mondo che ha dimenticato il suo passato.
Tra un boccone e l’altro, l’amico mi fa notare che quest’antica strada romana, tagliata per molti chilometri tra boschi e rupi, portava le torme di pecore e capri verso Senarica e poi giù per la valle del fiume Vomano, fino al mare.
Una sorta di raccordo tra la “Salaria dell’Adriatico” e quella del Gran Sasso che toccava poi la Laga amatriciana.
Basti pensare alle pietre miliari presenti qui e là da Poggio Umbricchio, grumo di case abbarbicate sulla roccia come un astore su di un pendio pronto al volo, giù fino al tempio di Ercole nella zona archeologica della vallata.
Non so se conoscete Fonte Spugna, quell’antico fontanile che trovate in una delle curve a gomito sulla strada Maestra del Parco, pochi tornanti dal bacino Enel del lago di Piaganini.
Ebbene se ci si affaccia di sotto del guardrail, lì dove scorre il fiume, s’intuiscono tracce di sentiero.
L’antica Salaria, secondo il mio amico montoriese, Claudio Foglia, appassionato cultore di quest’antica arteria romana, passa lì dopo essere scesa proprio dal Poggio, località campo sportivo, dove fu trovata la colonnina miliare, per virare attraverso Leognano e fino a Zampitto- Salara, per l’appunto.
Splendido!
Ricordo che quel grande uomo di cultura e amico, Gianmario Sgattoni, prima di lasciarci avrebbe voluto scrivere a quattro mani con me di questa sorta di città santuario sepolta dinanzi al Gran Sasso.
Per lui proprio qui esisteva l’antica “Beretra” di cui Tolomeo scrisse: “città orientale di là dell’Interamnia”.
Forse, come diceva l’abate scrittore del primo novecento, Jean Jacques Christillin, “la leggenda non è poi così lontana dalla verità, ma è semplicemente, la storia non ancora messa a punto”.
Di questi luoghi magici, solenni e misteriosi, il Gran Sasso è ancora pieno.
Vivono di vita propria in un continuo alternarsi di luci, ombre e figure che si confondono tra falsi storici e realtà.
Elementi mescolati che danno poi vita a una sorta di sinfonia poetica, unica, onirica, in un rapporto insondabile tra uomo e natura.
Il pastore rabbonisce il suo scalmanato cane bianco che latra selvaggiamente, mostrando denti affilati e occhi rossi ardenti come carboni.
Porta, sotto al mento, un lungo collare dai chiodi aguzzi per difendersi dai pericoli.
Il latrare del cane fedele si confonde con l’acuto suono dei campanacci.
La bestia infernale pare prendere maledettamente sul serio il suo compito di custode delle pecore.
Queste palle bianche animate, creature sorprendenti dal pelo lungo, appaiono un po’ orsi, un po’ lupi, sono impareggiabili in ferocia e forza.
Quando in montagna, li scorgi comparire sul tuo sentiero con il minaccioso abbaiare, è come se fossi in balia di un leone.
Mentre ringhiano, sei lì a pregare che il padrone delle greggi sia nei paraggi, altrimenti si fa notte!
Anche quando non avvertono minacce verso le greggi, non sembrano mai socievoli.
L’uomo, al contrario, è loquace ed è anche italiano.
Ha le tempia leggermente brizzolate, il colorito sano di chi passa evidentemente molte ore in ambiente, sorriso contagioso e insospettata capacità naturale di comunicare.
Vive non lontano da Tottea, ma nella bella stagione per molti giorni sperimenta una vita quasi nomade. Incredibilmente la pecora è ancora il centro della sua economia, dei suoi pensieri e del lavoro.
Un mondo anacronistico il suo.
Racconta degli aneddoti agro-pastorali, conditi da sussulti di umorismo.
Ricorda quando i pastori di sera transitavano in un paese.
C’era il rito dei pentolini: ogni famiglia, con il suo bel contenitore in mano, faceva il giro dei transumanti per chiedere un po’ di ricotta, il siero da mangiare la sera o da miscelare al mattino con il latte.
Snocciola, addirittura, anche ricette come quella della “pezzata”, piatto transumante che credevo si consumasse solo a Capracotta, nelle montagne del Molise, non lontano dalle vestigia di Pietrabbondante e delle antiche fonderie di Agnone.
Nel borgo molisano ancora lavora l’officina dei fratelli Marinelli, realizzatori delle campane nella basilica di San Pietro a Roma.
La pecora è bollita con erbe aromatiche dei prati alti, profumandola e servendola con zuppa di pane raffermo.
Il pastore schiocca le labbra a far capire la bontà del piatto, apre, poi, la sua povera bisaccia che ha visto giorni migliori ed estrae, con aria soddisfatta, ciuffi di orapi, sorta di spinaci selvatici d’altura e sentenzia che con quelli, la pezzata diventa un lusso!
Chissà perché quest’uomo d’altri tempi che non ha lasciato neanche il suo nome, appare affascinante nel suo puzzo di sudore e formaggio andato a male.
Per Massimo è la sua vita verde ad attrarre.
È una sorta di perenne avventura che alla casa di paese gli fa preferire le greggi, l’ovile, il canto degli uccelli, l’acqua di un ruscello.
È l’incanto di vivere al confine tra le rocce arenarie della Laga e il calcare del Gran Sasso, nella libertà assoluta, libera da schemi predefiniti.
Un qualcosa che ammalia chi, come noi, vive immerso in un mondo che consumandosi fino a farsi male, cerca oggi qualche via di salvataggio attraverso i confini di un’esistenza eco compatibile.
Sono vite semplici, povere, ma autentiche e pienamente vissute.
Questo povero transumante è un monumento alla tradizione.
Tutta la grande vallata ai margini dei monti della Laga è stata per anni conosciuta anche per la produzione di formaggi.
L’uomo è una miniera di ricordi.
Ha un’allegria coinvolgente.
Ride sguaiato, dipingendo, quasi la chiostra dei suoi denti.
Traffica con la sua pipa, la pulisce, la carica, l’accende, spande un terribile odore di tabacco nell’aria.
Un tempo, ci dice, quando si faceva pettegolezzi si diceva: facciamo ricotta!
Ci parla dei padroni, a volte odiosi che affidavano il loro gregge alla povera gente del posto.
I possidenti oltre al salario mensile, di per sé scarso, fornivano lo stretto necessario per sopravvivere.
La dote era: un litro d’olio al mese, un chilo di pane al dì, un chilo di sale per trenta giorni.
Lo strumento principe di questa sorta di baratto, era la “taja”, un regolo in legno su cui si segnavano con tacche, le quantità di pane e altre merci ricevute dal padrone.
In caso di superamento di queste razioni, si scalava il mese successivo.
Nell’ipotesi, molto remota che avanzasse qualcosa c’era il cosiddetto “affranco”, con il calcolo nel salario successivo.
Nel ricordare i pastori, che tornavano in estate con le loro greggi, invadendo le strade come un fiume di lana, il gregge che copriva ogni spazio della strada da dove si scorgevano solo velli, le tante case piene di persone che ora non ci sono più, l’uomo pare quasi sul punto di piangere.
Sembrano tempi incredibilmente lontani da noi quelli in cui si curava febbre con le sanguisughe e i salassi, quando il bucato si faceva con la liscivia, cioè acqua e cenere, quando i fiumi e i laghi erano potabili.
Ricordo che anche la mia povera nonna aveva una convinzione assurda: quando qualcuno stava molto male bisognava uccidere la gallina e preparare il brodo per il debilitato, mentre almeno una di sette vergini, con un bel fazzoletto bianco in testa, doveva recitare con trasporto il rosario.
In realtà il tempo che ci separa da una vita così diversa non è poi tanto.
Mentre l’uomo racconta, penso che lo scrittore latino Catone, oltre 2000 anni fa, ripeteva che per tutti i successivi secoli, la pastorizia sarebbe stata la maggiore ricchezza.
Sappiamo tutti com’è finito il Sacro Romano Impero.
L’Italia del dopoguerra grondava di latte, commerciava in lana, oggi i pastori sono disperati macedoni o piccoli produttori come l’uomo che abbiamo davanti.
Il “Settembre andiamo, è tempo di migrare” di dannunziana memoria suona come un beffa fuori moda.
Pochi sono quelli che ancora cercano di salvare i tratturi, le autostrade dell’antichità lungo le quali si snodavano commerci e transumavano gli armenti.
Ancora di meno coloro i quali cercano di non far crollare piccole chiese disseminate lungo i tracciati. Molti tratti sono ormai ricoperti da erbacce, molti asfaltati o affittati a contadini.
Il mondo è cambiato, qualche volta in peggio.
Chissà perché i pastori sono stati sempre visti con sospetto da tutte le civiltà.
La letteratura sumerica li definiva: “apparenti uomini dalla voce dei cani di prateria”.
Altre cultura li comparavano a briganti.
Gli egiziani ne avevano repulsa.
Per gli ebrei non potevano neanche testimoniare nei processi.
Un mestiere essenziale ma, direi, maledetto.
Eppure furono loro a vedere per primi Gesù nella grotta di Betlemme e dal tronco di Iesse, dal giovane pastorello Davide, che nacque la genealogia del Cristo.
Riprendiamo il cammino in un pomeriggio in cui il sole ha lasciato posto a una spessa nuvolaglia umida, grigiastra.
Il cielo è ora plumbeo, rigato da inusuali strisce rosse.
In un silenzio condiviso c’inoltriamo in un paesaggio di arcadica semplicità. In lontananza sentiamo scampanii di mucche al pascolo.
Nel naso, un acuto profumo di resina proveniente da boschi vicini.
Superati i minimi resti del leggendario abitato di Campanea che resistette alle intemperie del tempo fino al tardo medioevo, incontriamo anche le anonime pietre di quella che un tempo era l’antica pieve di San Martino dove dicono siano vissuti uomini già intorno al I secolo ante Cristo.
Si favoleggia che qui ci fosse già un vero presidio di fede pagana, poi col Cristianesimo la zona divenne una minuscola cittadella dello Spirito, un sito del silenzio e della contemplazione.
Bé, in verità, il silenzio è rimasto.
L’aria sembra ancora intensa di anime, densa e rarefatta allo stesso tempo.
L’aura religiosa un tempo si estendeva fino alla Madonna del monte Calvario di Piano Vomano, creando un culto mariano notevole: quello delle Sette Madonne Sorelle, che coinvolge tutte le statue dedicate alla Vergine Maria che si trovano nei paesi vicini.
È un’antica forma di devozione popolare, in passato molto diffusa nelle aree rurali e montane.
Il culto veniva professato svolgendo pellegrinaggi a piedi nelle chiese disposte entro orizzonti confinanti in modo da vedersi e dov’era presente una statua di Maria Santissima, per sciogliere voti, chiedere grazie, protezione da eventi terribili.
Oltre ad un’area devozionale, il luogo aveva anche funzione strategica per arroccarsi nel caso di un attacco nemico.
Una piccola città in pietra, dalla mirabile strategia urbanistica e una straordinaria posizione geografica, incastonata tra queste montagne.
Pare che uno scrittore del Rinascimento di cui non rammento il nome, parlando di questa cittadella ormai scomparsa, la descriveva così: “lì dove regna il sole che è di tutti e tutto fa crescere e la rovina non sarà mai tale.”
La domanda aperta al cielo è: come può essere diventato tutto così, rovina su rovina?
Una gustosa leggenda tramandata per anni, racconta di spiritelli terribili dal baschetto rosso e facce nere, che occupavano questo luogo: erano i fantastici “mazzamarill”.
Spaventavano le mandrie di vacche e le greggi delle pecore creando disagi a non finire ai pastori.
Occorreva molta fede e ore di preghiera per allontanare questi folletti birichini.
Ancora oggi quando s’incontra una persona di carnagione scura da queste parti si dice “che è nere n’da nu mazzamarill” .
La fama di questi luoghi è anche legata a un non so che di esoterico folcloristico.
Le presenze demoniache potevano essere allontanate solo con la preghiera.
Anche con accorgimenti, per carità.
Tutti, presso gli usci di casa, mettevano, ad esempio, le scope, per far sì che streghe o spiriti maligni, entrando, fossero costretti a contare uno per uno i fili, senza riuscire a venirne a capo entro l’alba.
I bambini, che spesso avevano problemi digestivi a causa della poca igiene, venivano guariti dai santoni della zona, facendo passare per tre volte un filo attraverso la cruna di un ago.
Sono molti i montanari che sostengono di aver trovato, al mattino, cavalli con criniere intrecciate e sudate, utilizzati dalle streghe per le loro notturne scorribande.
È risaputo che di queste anime perverse, hanno parlato grandi uomini come Dante Alighieri o Pico della Mirandola.
Tutto poteva essere scongiurato, però, con la preghiera.
La fede è dono di Dio assolutamente importante per gli uomini di montagna.
Nel giro di poche manciate di chilometri tra il Gran Sasso, la Majella e il Velino Sirente, esistono santuari costruiti sopra antri, grotte, rocce o picchi, là dove gli uomini in qualche misura sentono più forte la vicinanza di Dio, luoghi che sfiorano il divino.
Ci sono posti, dove si sperimenta il benessere anche fisico dello stare in silenzio, avvolti nei propri pensieri, ricordi o progetti che ancora ci attendono.
È questo il motivo per cui tanti santi li hanno cercati.
Così credo sia stato per San Benedetto a Cassino, San Francesco a La Verna e San Pietro Celestino a Santo Spirito nel vallone dell’Orfento, a Caramanico nel pescarese.
Questi luoghi conservano una spiritualità palpabile, di enorme richiamo per l’uomo moderno.
Non smetto mai di chiedermi perché l’occidente secolare dimentica tutto il suo sacro, quasi nascondendolo, mentre in Asia non c’è nulla di nascosto e tutto è sacro.
La sacralità della vita è tale che in India, ad esempio, i milioni di senza tetto pregano per strada, inginocchiati nella polvere tra il grigiore polveroso e scrostato.
Ora il dilemma è: scendere attraverso tracce di sentiero fuori pista e spezza gambe verso il paese di Senarica o tornare verso Macchia Vomano, aggirando i ruderi altomedioevali di Tibbia sui piani di Crognaleto, attraverso il vallone del Rosario e su di una comoda mulattiera.
Ci sarebbe anche un percorso tra sterpi che arriva fino allo storico mulino ad acqua De Giorgis di Poggio Umbricchio.
Un luogo delizioso con una storia singolare raccontata nei suoi scritti da Ercole, rampollo della famiglia che dal 1920 ne acquisì la proprietà.
L’antico opificio rurale ancora oggi presenta le pale in legno del tempo, le volte dei canali di deflusso delle acque e la buca di raccolta delle acque.
Questo manufatto fu costruito sul finire del secolo decimo nono da un carabiniere, un certo Giuseppe Andreoli della provincia di Mantova.
Il tizio lasciò la Benemerita, sposò una donna del Poggio e divenne anche sindaco di Crognaleto.
A questo Primo Cittadino si deve la costruzione del ponte in ferro sul fiume e il ripristino di antiche mulattiere.
Il mulino è stato per anni, il punto di riferimento delle popolazioni che vi si recavano per la macinazione dei raccolti di grano, orzo, mais e farro, capo saldi dell’antica alimentazione contadina.
Quale itinerario scegliere? È il bello e il brutto del non avere mete.
Massimo guarda attentamente la cartina, alza gli occhi al cielo, poi decide che forse è meglio tornare in quest’ultima direzione.
Peccato non passare a Senarica!
Quanti bei ricordi ho di questo minuscolo borgo antico pieno di storia.
Ripenso a una mitica sagra della castagna di qualche anno fa.
(Continua 2)
Dal secondo libro di Sergio Scacchia "Il mio Ararat"
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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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