I ricordi di Concetta Zilli di come si festeggiava il periodo più bello dell’anno nel cuore dei monti della Laga teramani.
Per la festività dell’Immacolata Concezione, tutti gli abitanti di Cesacastina donavano, (lo fanno tuttora) dei bei pezzi di legno per accendere un grande fuoco.
Le fiamme erano benedette e per ore le donne cantavano lodi alla Vergine Maria.
Dopo l'evento, ognuno portava a casa un tizzone di fuoco benedetto.
Ma, certamente l’attesa di tutti s’incentrava nel giorno della vigilia.
Dalla fine dell'estate, dopo il quindici settembre, i ragazzi dai dieci ai quattordici anni, si mettevano alla ricerca di bastoni per mettere sulle sommità un chiodo di muratore.
Come piccoli scoiattoli, gli adolescenti salivano sui numerosi alberi di ciliegio e staccavano via la corteccia in lunghe strisce da essiccare vicino al camino fino al Natale.
La corteccia seccando, diventava riccia, arrotolandosi su se stessa.
Era poi infilata sul chiodo del bastone.
Questa era la lunga preparazione alla festa dei “Faoni”.
Giunti alla messa di mezzanotte si dava inizio a uno spettacolo bellissimo e commovente.
Il paese che, al calar della sera, cadeva come tutti i borghi montani, in un buio totale, di colpo era rischiarato dal chiarore delle sommità dei bastoni dove si era dato fuoco alle cortecce. I faoni erano fondamentali per raggiungere la chiesa e partecipare alla messa di mezzanotte.
Meravigliosa era la scena dei serpentoni di luce che, da tutte le borgate di Cesacastina, cioè “Colle”, “Villa”, “Mastresco” e “Combrello”, confluivano nella chiesa principale.
Le strade erano piene di buchi, spesso coperte di neve e ghiaccio. Il fuoco recava sollievo alle persone anziane e meno agili.
Immaginate quant’era romantico il rossore sul bianco della neve.
Prima di recarci tutti alla Celebrazione Eucaristica, si consumava la cena della vigilia, consistente in una pasta con il sugo di baccalà, (sì, pesce in montagna), la zuppa di ceci e castagne.
Il prezioso frutto, pane degli antichi, era acquistato nella “fiera di tutti i morti” che il 2 novembre si svolgeva a Montorio al Vomano.
Le castagne provenienti in gran parte dagli alberi di Senarica, erano nascoste dalle mamme per evitare che i maschi mangiassero tutto prima del 24 dicembre.
Le paure ancestrali erano tipiche della notte di attesa.
I padri vietavano di avvicinarsi alle stalle poiché in queste ore, il Signore dava il dono agli animali di parlare come gli umani.
L'avvicinarsi avrebbe rotto l’incantesimo.
In questa notte magica, le mamme alle figlie o le nonne alle nipoti, potevano insegnare litanie in grado di sconfiggere il malocchio.
In dialetto si chiamava "Lu dice all’ucchie".
Il malcapitato, colpito dagli sguardi cattivi, doveva sottostare con fede al rito di croci segnate sul corpo con le mani e la recita nascosta di preghiere fatte a bassa voce, conosciute da pochi guaritori.
La conferma della scomparsa del pericoloso malocchio, si aveva versando delle gocce di olio nuovo in un piatto d'acqua per vedere se allargavano i cerchi oppure no.
Il venticinque si mangiava carne e un primo di pasta all'uovo.
Il dolce era la “pastuccie”, fatto con fichi secchi e impasto realizzato con lievito madre del pane di patate, tipico della zona.
Gli squisiti “calcionetti” con ripieno di cioccolata e castagne e il ricco timballo di scrippelle sarebbero arrivati solo dopo.
Articolo redatto da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".
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Per la festività dell’Immacolata Concezione, tutti gli abitanti di Cesacastina donavano, (lo fanno tuttora) dei bei pezzi di legno per accendere un grande fuoco.
Le fiamme erano benedette e per ore le donne cantavano lodi alla Vergine Maria.
Dopo l'evento, ognuno portava a casa un tizzone di fuoco benedetto.
Ma, certamente l’attesa di tutti s’incentrava nel giorno della vigilia.
Dalla fine dell'estate, dopo il quindici settembre, i ragazzi dai dieci ai quattordici anni, si mettevano alla ricerca di bastoni per mettere sulle sommità un chiodo di muratore.
Come piccoli scoiattoli, gli adolescenti salivano sui numerosi alberi di ciliegio e staccavano via la corteccia in lunghe strisce da essiccare vicino al camino fino al Natale.
La corteccia seccando, diventava riccia, arrotolandosi su se stessa.
Era poi infilata sul chiodo del bastone.
Questa era la lunga preparazione alla festa dei “Faoni”.
Giunti alla messa di mezzanotte si dava inizio a uno spettacolo bellissimo e commovente.
Il paese che, al calar della sera, cadeva come tutti i borghi montani, in un buio totale, di colpo era rischiarato dal chiarore delle sommità dei bastoni dove si era dato fuoco alle cortecce. I faoni erano fondamentali per raggiungere la chiesa e partecipare alla messa di mezzanotte.
Meravigliosa era la scena dei serpentoni di luce che, da tutte le borgate di Cesacastina, cioè “Colle”, “Villa”, “Mastresco” e “Combrello”, confluivano nella chiesa principale.
Le strade erano piene di buchi, spesso coperte di neve e ghiaccio. Il fuoco recava sollievo alle persone anziane e meno agili.
Immaginate quant’era romantico il rossore sul bianco della neve.
Prima di recarci tutti alla Celebrazione Eucaristica, si consumava la cena della vigilia, consistente in una pasta con il sugo di baccalà, (sì, pesce in montagna), la zuppa di ceci e castagne.
Il prezioso frutto, pane degli antichi, era acquistato nella “fiera di tutti i morti” che il 2 novembre si svolgeva a Montorio al Vomano.
Le castagne provenienti in gran parte dagli alberi di Senarica, erano nascoste dalle mamme per evitare che i maschi mangiassero tutto prima del 24 dicembre.
Le paure ancestrali erano tipiche della notte di attesa.
I padri vietavano di avvicinarsi alle stalle poiché in queste ore, il Signore dava il dono agli animali di parlare come gli umani.
L'avvicinarsi avrebbe rotto l’incantesimo.
In questa notte magica, le mamme alle figlie o le nonne alle nipoti, potevano insegnare litanie in grado di sconfiggere il malocchio.
In dialetto si chiamava "Lu dice all’ucchie".
Il malcapitato, colpito dagli sguardi cattivi, doveva sottostare con fede al rito di croci segnate sul corpo con le mani e la recita nascosta di preghiere fatte a bassa voce, conosciute da pochi guaritori.
La conferma della scomparsa del pericoloso malocchio, si aveva versando delle gocce di olio nuovo in un piatto d'acqua per vedere se allargavano i cerchi oppure no.
Il venticinque si mangiava carne e un primo di pasta all'uovo.
Il dolce era la “pastuccie”, fatto con fichi secchi e impasto realizzato con lievito madre del pane di patate, tipico della zona.
Gli squisiti “calcionetti” con ripieno di cioccolata e castagne e il ricco timballo di scrippelle sarebbero arrivati solo dopo.
Articolo redatto da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".
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