Siamo sopra la gola del Salinello, tra la montagna di Campli e quella dei Fiori.
L’arrotondata cima di monte Girella sembra di una monumentale perfezione, con un piccolo raggio di luce vivida di sole che esalta all’altro lato il monte Foltrone sullo sfondo.
Il sole sembra aver abbandonato questi monti e la sottile nebbia che li avvolge dona un senso di misterioso all’insieme.
Le grotte sotto il mitico Castel Manfrino, punteggiano le strette pareti e raccontano storie incredibili di anacoreti che per lunghi anni hanno vissuto in privazione e preghiera travalicando la sopportazione umana e dando un senso compiuto alla Torah e alla sua essenza inafferrabile.
Le mute pietre della rocca riflettono gli ultimi strali di fuoco rievocando racconti di streghe e diavoli, negromanti e spiriti perversi, animali fantastici e cavalieri erranti, folletti e licantropi.
Tante le leggende fiorite su questi nobili ruderi come quella che racconta dell’erezione dei muri di cinta di quest’antico castello, oggi diroccato e a picco sulle gole, da parte di esseri umani di proporzioni gigantesche, i mitici Paladini di Francia.
Il re Manfredi volle il luogo inespugnabile, preoccupato da una possibile invasione, dalle attuali Marche, dei temibili Angioini.
Era, questo passo tra i monti, di notevole importanza strategica per chi, proveniente da Roma e Antrodoco, attraverso l’antica stazione romana Castrum Metella intendesse giungere al mare adriatico.
Il sottosuolo della collina, dove sorgono i resti del forte, ha restituito spesso monete, statuette, monconi di capitelli e pezzi di lapide.
Qui sono passati tribù italiche, Romani, Longobardi e via, via tutti i popoli che sono entrati in Abruzzo, permettendo il commercio del sale e di altri beni preziosi e consentendo l’arrivo di tanti abati trasformatisi poi in eremiti.
Tutto ciò stride con il senso di solitudine in cui versa oggi la zona.
Tanti hanno alimentato leggende stupefacenti raccontando di essersi imbattuti in demoni orrendi dalla forza inaudita o nauseanti “mazzmarill” roteanti assurdamente fianchi e manine.
In un vecchio libro sulle leggende abruzzesi, si riporta l’antica credenza che, nelle notti di luna piena, spesso tra le pietre del castello diroccato, si svolgano furiose battaglie tra cavalieri fantasma; spettri di guardia mozzerebbero le mani agli umani che cercherebbero di assistervi.
Le grotte sotto i resti del castello sembra abbiano, nel corso dei secoli, ospitato anche esorcisti e guaritori.
Si trattava di asceti che riuscivano a guarire, secondo le credenze popolari, dalle presenze demoniache, con strani rituali purificatori.
Questa tesi sarebbe avvalorata dalla scoperta di piccole nicchie con tracce di antichi affreschi, dove erano consumati tali riti.
In questa valle San Francesco, che la tradizione vuole sia passato nel 1215, dimorando alcuni giorni in un anfratto della parete nord del Foltrone, mentre tornava al suo giaciglio dopo aver predicato nel villaggio vicino, fu aggredito da una moltitudine di pidocchi inviati dal malvagio che vigilava dall’altra parte della gola.
Il poverello d’Assisi puntò il suo vincastro facendo partire una folgore che, colpendo in fronte Satana, lo fece precipitare lungo l’alveo del fiume, uccidendolo sul colpo.
A riprova di ciò ci sarebbe una pietra, dove il santo si poggiò in cui sono evidenti le impronte delle mani e dei piedi e un grande foro nel punto in cui il maligno precipitò.
Nel fondo della gola, dove il fiume si presenta più tumultuoso, narrano ci sia un enorme macigno che bloccherebbe una cavità naturale, al cui interno si nasconderebbe un tesoro in monete d’oro, rame e argento.
Il bottino, la cui proprietà risalirebbe al Re Manfredi, sovrano del castello di Macchia, sarebbe custodito da una splendida fata vestita di bianco che, quasi una sorta di Penelope, tesse e disfa la lana in continuazione.
Edordo Micati, nel suo libro sugli eremi della montagna teramana, parla di un monaco che se ne sta nel fondo della grotta dritto e in silenzio in attesa del comando della bianca signora.
Diversi cava tesori, nel corso dei secoli, hanno provato a impossessarsi dell’ambito mucchio di monete, perdendo sciaguratamente la vita.
Si è diffusa così la credenza che esseri mostruosi si annidino nella valle, impedendo con tutti i mezzi, il trafugamento della ricchezza, servendosi di uragani e tempeste, fiamme e bagliori.
Il sovrano, grazie a un ignobile patto con il diavolo, fece uccidere il suo fidato consigliere di corte, sotterrando il corpo, privo di vita, insieme al tesoro per far sì che l’anima vagasse, inquieta, tenendo lontano i curiosi con gemiti, urla e imprecazioni.
La leggenda racconta che chi si avventurava nell’orrido, dovesse inizialmente portare via solo le monete in rame, per poi ripresentarsi tre anni dopo per quelle in argento e successivi tre anni per depredare in tranquillità, le ambite monete d’oro.
La cupidigia degli avventurieri per il metallo più nobile faceva sì che la porta d’ingresso si richiudesse dietro di loro facendoli perire dentro l’anfratto.
Scendendo nel canyon dove la luce riflessa gioca sui toni del bianco e del grigio, soffocando i colori brillanti della valle, avvertirete quel sottile senso di disagio che comunemente si chiama paura!
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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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