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lunedì 20 maggio 2013

Tra le pietre parlanti di Corvara

“Divorano la carne del mio popolo, gli strappano la pelle di dosso, ne rompono le ossa e ne fanno spezzatino, come carne in una pentola, come lesso nel calderone”. (Michea 3,3)

Il vecchio ha un fremito:
“Qui ormai non viene più nessuno e i ruderi se li sta comprando tutti un romano pieno di soldi.
Restaura, poi forse vende le case agli inglesi.

Da qui a Farindola gli stranieri stanno prendendo tutto.
Arriveranno fino a Brittoli.

Ma la mia casa non è cadente e io non gliela vendo”.

l signor Ettore ha l’occhio destro assente, la voce piena di anni e rotta da un moto d’indignazione.
Corvara, discreta, si arrocca tra poche case intatte e molti monconi di mura, a pochi tornanti dal valico di Forca di Penne nell’area vestina del parco Gran Sasso, in provincia di Pescara.
Tra incuria e bellezza, tutto è stato spolpato dai vandali, ma le storie di vita rimangono.
È il sublime dell’abbandono, la vita che scompare.
Un mondo popolato di anime perse, ombre migranti e montanari sfatti.

Mi viene in mente Michea, il profeta che per la sua origine campagnola era poco gettonato e accostato ad Amos, altro provinciale.

Eppure i due condividevano un linguaggio spiccio, concreto e anche brutale, ricco di ansie per la giustizia.

Il povero Ettore dovrà farsene una ragione.
Corvara di un tempo, presto non esisterà più.
Nei miei viaggi ho collezionato un’infinità di ruderi, solitudini e case abitate dal vento.

Ma qui è diverso.

Ho percorso strade sbarrate a un certo punto da sterpaglie, ruggine, muri sbeccati, roveti, ma qui è di più.
Siamo davanti a una casa degli spiriti dagli arcani manoscritti dell’abbandono sotto un cielo e un sole da pergamena. È una linea d’ombre fra silenzi di pietra.
È un gran viaggiare questo mio, alla ricerca delle dimore del vento strappate dal sipario del tempo.

Lo sperone di roccia sovrasta, tra boscaglie fitte e intricate, la strada che scende verso il santuario del giovane Beato Sulpizio e la splendida abbazia di San Clemente a Casauria.
Il borgo quasi fantasma si sviluppa tutto in salita fino alla rupe superiore.
Da qui lo sguardo può spaziare fino all’Adriatico.
Le pietre sembrano scrutare la piana, in tempi antichi, portatrice di malaria e morte tra incursioni saracene e l’impaludamento delle acque del fiume Nera.

Tra questi monti, a torto definiti minori, dell’area protetta del Parco, ciabatta un’alta concentrazione di vecchi, alcuni quasi centenari perché in mezzo alla natura si vive a lungo.

Da molti anni a Corvara non si nasce e non si muore più.
Questa chiocciola di pietra dal cuore antico e silenzioso, medievale resto di un abitato, sta per essere tutto colonizzato pronto per farne un albergo diffuso sul modello Santo Stefano di Sessanio, nel nome di una nuova giovinezza turistica assolutamente materiale.

Ne ha ben donde chi si appresta a quest’operazione commerciale dato che resiste un tessuto urbano fatto di vicoli, scalinate, portici e anfratti.
I sette, otto abitanti rimasti in inverno, insieme formano un’età che presumibilmente si aggira sui cinquecento anni e non vogliono abdicare a vantaggio del progresso.
Le due donne che lavano i panni nella piccola fonte di pietra mi guardano sorprese.
In genere da queste parti le visite si concentrano nella settimana di ferragosto.
Tre polli razzolano davanti a quel che resta di una casa con due piccoli portali sovrastati da terribili mascheroni polimorfi.

Su di una cancellata il cartello invita ad acquistare la casa che, senza un adeguato restauro potrebbe caderti addosso.
Poco distante un rudere presenta sul muro una vecchia insegna.
Era la panetteria dove la mattina si sfornavano pagnottelle e pizzette.

Accosto la piccola porta in legno fradicio. Sul muro c’è ancora un corno d’ariete, culto pagano di civiltà pastorale che individuava in questo segno fortuna e sperava così nell’abbondanza.
Neanche tutti i buoi del comprensorio, con le loro corna, probabilmente avrebbero salvato Corvara da questa improvvida decadenza.
“Pensare che un tempo qui si sarebbero fatti uccidere piuttosto che vendere”.

Il signore che esclama questo è in tuta da lavoro. Mi saluta, poi sale su di un minuscolo muletto con gru e prende a trasportare materiale.
Sta lavorando con la sua impresa al restauro della piccola piazza.
C’è anche una vecchia Multipla Fiat verde pisello, che ha il vetro anteriore con più crepe delle rughe nel viso della Montalcini.

La carrozzeria interna non esiste più tra pezzi mancanti, ruggine e ammaccature.
Unica cosa stranamente integra, il tettuccio di plastica in origine color crema, oggi indefinibile.
Dicono sia di proprietà di una famiglia di zingari.
Strani popoli questi, simili agli ebrei, sparsi in tutto il mondo che però hanno un fortissimo senso d’identità.

In un piccolo slargo c’è una vecchia capanna utilizzata nello scorso Natale per una rappresentazione della Natività.
Più tardi mi spiegano che da queste parti spesso, dai paesi vicini, vengono ad allestire il teatro all’aperto, perché Corvara, nonostante la distruzione della memoria pastorale, è sicuramente una location degna anche di ospitare riprese cinematografiche.
In cima all’abitato, nella parte più alta, la vista spazia su una larga fetta del pescarese.
È fantastico.

Il cielo è plumbeo, la vegetazione marmorea, le nuvole incastrate tra loro, eguagliano lo zucchero filato.

C’è un’antica mulattiera con passaggi scavati nella roccia che da qui arriva verso il panoramico dosso del Colle Rotondo.

Avendo tempo si giungerebbe al valico di Forca di Penne con il suo torrione medievale, zona di grande interesse per chi ama il “birdwatching”, l’avvistamento degli uccelli che migrano.

Vento, silenzio, solo il sibilo del roteare di una poiana in alto.
Tutto è immobile, anche la lucertola che cuoce al sole.
In mezzo a menta, rosmarino e un roseto selvatico, c’è anche un piccolo pozzo del tardo medioevo.
Io credo che la gente di montagna che non rimane attaccata alla terra, prima o poi fa la fine delle api impazzite che non trovano più la strada di casa.

Sono molti, troppi, gli epicentri della desolazione tra antiche pietre parlanti e monconi di esistenze sfatte.
Mi pare di sentire lo scalpiccio d’invisibili abitanti di un tempo.
Appaiono quasi come cose vive di fronte al nulla.

Per Corvara e Forca di Penne arrivate al casello di Torre dè Passeri della A25 per Roma. Imboccare poi la statale per Brittoli e Civitaquana.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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